Potresti
presentare lo spettacolo “Limite” parlando delle differenze che ci sono
rispetto agli altri tuoi lavori?
Limite è
il primo esperimento di rottura da Voilà, che per problemi tecnici non abbiamo
portato qui al festival.
Opera è
il primo spettacolo che ha creato il gruppo Vincenzo Schino; da Opera sono nate
delle tappe di ricerca, le Operette, finite con Voilà. Limite invece fa parte
di una nuova fase che rincomincia da zero. In Voilà abbiamo utilizzato figure
popolari come clown, maschere della commedia dell’arte, burattini. Mi sono
ispirato ad antichi dipinti e a esempi classici del teatro, per esempio, il mio
Pulcinella è quello di Tiepolo, Arlecchino è quello di Ferruccio Soleri e di
Strehler. Per quanto riguarda le figure di Limite è importante riuscire a
sfruttare la loro potenza. Esse si legano a un aldilà; la volontà è quella di
andare alla ricerca di un altro mondo.
Questa
creazione di un altro mondo è forse un tentativo di evasione sociale?
Non c’è
un atteggiamento politico o di polemica. Non è un fuggire in un universo
immaginario, ma un creare qualcosa che fa parte dal mondo. Usiamo degli oggetti
precisi, chiari, reali partendo dai quali si finisce per creare qualcos’altro,
un microcosmo dove gli stessi oggetti sono distorti cosicché il luogo, alla
fine, diventa qualcosa di sconosciuto, anche per gli stessi attori, il cui
lavoro, nelle prove, è proprio quello di ambientarcisi.
Mi
parleresti di come nei tuoi spettacoli gli attori fanno uso della spazialità?
Gli
spazi per gli attori sono definiti e c’è l’idea che tutto lo spettacolo si crei
contemporaneamente. Niente viene dopo, né i costumi né la scenografia.
Fate uso
dell’improvvisazione?
Nelle
prove facciamo uso dell’improvvisazione, ma la cosa più importante è l’ascolto.
L’attore deve essere in grado di ascoltare quello che accade, nell’ambiente o
dentro di lui. Questa idea viene nutrita dalle mie suggestioni istintive oppure
dagli studi che faccio di letteratura e di arti visive. È così che riusciamo a
creare uno spettacolo caotico che in certi frangenti diviene più disteso e
apollineo.
Il tuo
non è un lavoro che potremmo definire psicologico.
Il mio
lavoro è antipsicologico, non c’è psicologia nel personaggio. Più che di
personaggi, nel mio teatro si parla di figure, prese in prestito da Francis
Bacon. È importante la forza istintiva data da queste figure. Esse diventano
quasi degli strumenti musicali per la loro intensità emotiva. Il lavoro degli
attori, la cui meta è di giungere a quest’effetto irrazionale, si divide tra
quello che a loro viene proposto di fare e quello che si sentono di fare
emotivamente. Non c’è un atteggiamento da marionetta e marionettista. È un
lavoro sull’abbandono.
Punto di
vista del pubblico, punto di vista del creatore dello spettacolo. Come
s’incontrano? Si deve scendere a compromessi?
Non si
deve scendere a compromessi. Il pubblico è fondamentale, ma non si deve pensare
di scrivere qualcosa che gli piaccia. Gli spettatori sono importanti, perché
con loro gli attori entrano in una sorta di contatto energetico, così da creare
un circuito elettrico. Anche io, che provvedo alle luci e alla regia, reagisco
all’energia che si crea. È un po’ come un concerto in cui gli strumenti non
smettono mai di accordarsi.
Cosa ne
pensi di questa idea del festival di farvi incontrare con i Visionari, i non
addetti ai lavori, insieme ai Fiancheggiatori, i professionisti del campo?
Mi sento
molto contento di questo, perché di solito sono operatori quelli che vedono i
miei spettacoli e i Visionari invece sono il vero pubblico, il pubblico
casuale. Quando mi chiamò Luca Ricci, per dirmi che ero stato selezionato dai
Visionari, per me è stata una bella cosa perché si è scelti dal pubblico che si
vuole.
Un’ultima
domanda: è possibile vivere con il teatro?
No, in
Italia no, non so all’estero, ma in Italia no, lo sottoscrivo. Non c’è un
mercato che sostiene gli spettacoli. Dovremmo fare troppe repliche e non è
possibile.
Sono
forse queste difficoltà a rendere il teatro interessante?
Sì,
perché chi lo fa non ha niente da guadagnarci e si fa per passione e
accanimento. Ti domandi: “Ma chi te lo fa fare?”. Evidentemente c’è qualcosa
che brucia e che ti manda avanti. Noi continuiamo.
Stefano
Duranti Poccetti (dal giornale del Kilowatt Festival, 24 luglio 2009)
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