Progetto Brockenhaus con "Sagra" |
Solo
tre parole: invito di sosta, sacrificio e Charlot. “Invito di sosta” sta per
tutti quegli appuntamenti di danza contemporanea che avverranno fino a marzo
nel Teatro Comunale di Castiglion Fiorentino, grazie al sostegno e al lavoro di
Sosta Palmizi. Venerdì 2 dicembre è stato l’inizio di questa rassegna, che ha
visto sul palcoscenico due spettacoli, e qui si giunge alla spiegazione della
seconda parola: sacrificio. “Sagra” del “Progetto Brockenhaus”, con Elisa
Canessa, Elisabetta di Terlizzi, Francesco Manenti ed Emanuel Rosenberg, creato
in collaborazione con Federico Dimitri, Piera Gianotti e Cecilia Ventriglia,
porta in scena “La sagra della primavera” con le musiche di Igor Stravinsky e,
in linea con la famosa opera, anche lo spettacolo di teatro – danza del
Brockenhaus ne fa suo il tema principale: il sacrificio appunto, che viene elevato
a tematica universale, dove sta per:
sacrificio di essere attore, sacrificio di essere uomo, sacrificio di vivere.
La vita insomma è un sacrificio e questo emerge dallo spettacolo, più per una
conoscenza dovuta alla sensibilità piuttosto che a una dovuta al ragionamento. In
effetti i significati di quest’opera (svelati in parte dai danzatori alla fine della rappresentazione) si ritrovano in un lavoro molto colto da
parte della compagnia, che ha sfogliato e letto i diari di Stravinsky e di
Nijinski, che fu coreografo della “sagra”. È così che si capisce che quelle
scimmie che vediamo ballare e gesticolare sul palcoscenico possono essere lette
come metafora della musica di Stravinsky, una musica che al suo tempo fu
considerata come nera e bestiale. Le scimmie poi, mano a mano che lo spettacolo
va avanti s’incontrano con gli esseri umani, diventando alla fine umane esse
stesse. L’istinto s’incontra con la razionalità insomma; s’incontra e si
scontra, perché non ne è facile la convivenza. L’ “evoluzionismo darwiniano”
potremmo vedercelo? Perché no (dopo tutto le scimmie partono da tali divenendo
infine uomini). Ma non bisogna dimenticare il lato più astratto e immaginifico
di questa “sagra”, dove le scimmie potrebbero essere anche solo immagini proiettate
da un sogno-incubo della regista che sta in scena e che a tratti medita, a tratti
danza, a tratti s’infuria con i ballerini mettendoli a severe regole (anche qui
una citazione dal diario di Nijinskj, come si sa molto rigido con i suoi
performer), alla fine riuscendo a trionfare in qualche modo sulle sue stesse
proiezioni immaginifiche, che inizialmente l’avevano assediata senza che lei
potesse ribellarsi, ed è così che finisce lo spettacolo, nel caos, nel “casino”
completo di luci che “danzano” in qua e in là sul palcoscenico, sugli sfondi:
su tutto il teatro. Gli attori – performer, poi, si muovono come in preda a un
rito: la Primavera è arrivata: è giunto il sacrificio. La linea tra il
cervellotico e il non senso è molto sottile, ma quello che conta è lasciarsi
trasportare dall’Arte e così, in questo lavoro del Brockenhaus, non è
indispensabile essere al corrente di tutta la “razionale magia” che sta sotto. Basta lasciarsi trasportare e la meraviglia verrà da sola.
Matteo Fantoni in "Leoni" |
Giungo
infine alla terza parola: “Charlot”. Charlot perché, nel secondo e ultimo
spettacolo portato in scena è stato protagonista Matteo Fantoni con il suo
debutto “Leoni”, una performance solistica in cui il giovane danzatore – mimo,
vestito di un casco e qualche protezione, ha voluto mettere in scena la
tematica dell’assenza di coraggio, dove la canzone di Lucio Battisti "I giardini di marzo" è stata l’apice
del tutto, visto che il performer ha aperto la bocca solo per cantarne la frase "ma il coraggio di vivere quello ancora non c'è", che evidentemente ha visto come il segreto e la chiave del suo spettacolo,
uno spettacolo in cui lui ha ballato e mimato facendo ironia su canzoni di Serra, Brel e Gogol, che lui stesso metteva tramite un mixer disposto in scena. È stato un quarto d’ora
divertente, una piccola tragicommedia in cui “il riso doveva portarci al pianto”:
all’assenza di coraggio appunto. Ho detto “Charlot” perché ho visto nel
performer l’intenzione di crearsi un “personaggio tutto fare”: un atleta, un
attore, un ballerino, un tecnico (sulla scena era solo lui e si sistemava da
solo i praticabili e si metteva da solo la musica su cui danzare). Aveva un po’
anche il fare da macchietta, con il volto incipriato e con gli occhi truccati.
Non è stato uno spettacolo negativo, l’unica cosa che è mancata è “la storia”,
voglio dire: avete presente quando vi trovate davanti a qualcuno o a qualcosa e
sentite in voi e davanti a voi una presenza importante perché profonda e
vissuta? Questo mi è mancato da questo spettacolo - al contrario di quello del brockenhaus, un po’ come mi potrebbe
mancare la poca matericità di un quadro dipinto più per un fine decorativo che
artistico. Ma d’altra parte Matteo Fantoni è giovane e quella “storia” di cui
parlo farà in tempo a farsela.
Stefano
Duranti Poccetti
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