Chiude
così Cesare deve morire, il
bellissimo film in lizza per conquistare l’Orso d’Oro, dei fratelli Paolo e
Vittorio Taviani, applaudito da tutta la stampa internazionale alla presentazione
di stamane. Una docufiction girata nel carcere di massima sicurezza di Rebibbia
in cui un gruppo di detenuti mettono in scena il Giulio Cesare di Shakespeare.
Una
esperienza così coinvolgente che, a detta degli stessi registi, alla loro età
non credevano di poter vivere. In effetti per la prima volta si sono
confrontati con degli attori che recitavano le battute con un dolore vero, un
dolore sentito, che gli attori professionisti, anche quelli più bravi, non
possono avere. E in effetti l’esperimento dei fratelli Taviani gira tutto
intorno a questo meccanismo. "Entrano" ed "escono" da Shakespeare, dal suo Giulio
Cesare, ricordandoci che le scenografie non sono ricostruite da uno scenografo,
non sono finte, inventate o create, ma che siamo in un carcere e gli attori,
anche se bravi, sono solo dei carcerati che dalle quinte del teatro della vita
a volte non possono più uscire. Ecco perché la frase finale
dell’attore-carcerato. Forse si è pentito e attraverso l’arte ha fatto i conti
con le proprie colpe. Forse ha capito qual è il suo talento, ma non potrà mai
sperimentarlo in libertà perché è un ergastolano.
Ma
nel film c’è anche chi ce l’ha fatta, si tratta del bravissimo Salvatore
Striano, richiamato in carcere dai fratelli Taviani per interpretare un intenso
Bruto, il personaggio chiave dell’intera vicenda. L’attore napoletano adesso è
un professionista, fa teatro, cinema e
televisione, era stato in carcere per otto anni e solo grazie al suo talento è
riuscito a ricostruirsi una vita.
Il
film comincia e finisce con la stessa scena, ma l’intensità con la quale lo
spettatore vive la seconda diventa inevitabilmente più emozionante. Nel mezzo
c’è la storia di un classico teatrale preso, smembrato, decostruito e ricostruito,
in nome di uno spettacolo, il cinema, che, pur essendo figlio del teatro, è una
cosa diversa.
Il film è in bianco e nero, il colore è usato dai registi solo
per scandire i tempi e per evocare in una fotografia una poetica di libertà,
mentre i dialoghi sono recitati in dialetto di appartenenza di ogni attore.
Il
progetto è stato realizzato grazie all’incontro dei Taviani con Fabio Cavalli,
attore prestato nel film, ma di professione regista del teatro di Rebibbia, un
teatro della città di Roma - non solo uno dei tanti luoghi di un carcere - dove è riuscito a portare ad oggi ventiduemila spettatori, molti dei quali studenti minorenni.
Un fenomeno che potrebbe essere oggetto di studi per il teatro contemporaneo.
Antonio
Castaldo, Berlino
ancora un plauso per il tuo articolo, bravo avanti cosi'
RispondiEliminaottimo articolo! Bravo Antonio!!!!! Nicola
RispondiEliminal'articolo più ben scritto che ci sia in circolazione! complimenti! un ottimo giornalista.
RispondiEliminaGrazie
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