18 febbraio, 2012

L'Orso d'Oro a una bandiera italiana: "Cesare deve morire"


"Cesare deve morire" vince l'Orso d'Oro al Festival del Cinema di Berlino 2012! Un grande orgoglio per l'Italia. Il film è stato già recensito qualche giorno fa dal collega Antonio Castaldo, inviato a Berlino per seguire l'evento. Per l'occasione ripropongo a seguito l'articolo citato:


"Da quando ho conosciuto l’arte sta cella è diventata una prigione!” 
Chiude così Cesare deve morire, il bellissimo film in lizza per conquistare l’Orso d’Oro, dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani, applaudito da tutta la stampa internazionale alla presentazione di stamane. Una docufiction girata nel carcere di massima sicurezza di Rebibbia in cui un gruppo di detenuti mettono in scena il Giulio Cesare di Shakespeare.
Una esperienza così coinvolgente che, a detta degli stessi registi, alla loro età non credevano di poter vivere. In effetti per la prima volta si sono confrontati con degli attori che recitavano le battute con un dolore vero, un dolore sentito, che gli attori professionisti, anche quelli più bravi, non possono avere. E in effetti l’esperimento dei fratelli Taviani gira tutto intorno a questo meccanismo. "Entrano" ed "escono" da Shakespeare, dal suo Giulio Cesare, ricordandoci che le scenografie non sono ricostruite da uno scenografo, non sono finte, inventate o create, ma che siamo in un carcere e gli attori, anche se bravi, sono solo dei carcerati che dalle quinte del teatro della vita a volte non possono più uscire. Ecco perché la frase finale dell’attore-carcerato. Forse si è pentito e attraverso l’arte ha fatto i conti con le proprie colpe. Forse ha capito qual è il suo talento, ma non potrà mai sperimentarlo in libertà perché è un ergastolano.
Ma nel film c’è anche chi ce l’ha fatta, si tratta del bravissimo Salvatore Striano, richiamato in carcere dai fratelli Taviani per interpretare un intenso Bruto, il personaggio chiave dell’intera vicenda. L’attore napoletano adesso è un professionista,  fa teatro, cinema e televisione, era stato in carcere per otto anni e solo grazie al suo talento è riuscito a ricostruirsi una vita.
Il film comincia e finisce con la stessa scena, ma l’intensità con la quale lo spettatore vive la seconda diventa inevitabilmente più emozionante. Nel mezzo c’è la storia di un classico teatrale preso, smembrato, decostruito e ricostruito, in nome di uno spettacolo, il cinema, che, pur essendo figlio del teatro, è una cosa diversa. 
Il film è in bianco e nero, il colore è usato dai registi solo per scandire i tempi e per evocare in una fotografia una poetica di libertà, mentre i dialoghi sono recitati in dialetto di appartenenza di ogni attore.
Il progetto è stato realizzato grazie all’incontro dei Taviani con Fabio Cavalli, attore prestato nel film, ma di professione regista del teatro di Rebibbia, un teatro della città di Roma  - non solo uno dei tanti luoghi di un carcere - dove è riuscito a portare ad oggi ventiduemila spettatori, molti dei quali studenti minorenni. Un fenomeno che potrebbe essere oggetto di studi per il teatro contemporaneo.

Antonio Castaldo, Berlino

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