IL LADRO
(the wrong man)
USA, 1956 105' B/N
(the wrong man)
USA, 1956 105' B/N
REGIA :
ALFRED HITCHCOCK
INTERPRETI
: HENRY FONDA, VERA MILES, ANTHONY QUAYLE, CHARLES COOPER, HAROLD J. STONE
EDIZIONE DVD : Sì, distribuito da WARNER HOME VIDEO
(edizione estera con traccia audio in italiano)
A chi non è capitato, almeno una volta nella vita, di essere
scambiato per qualcun altro? Nel caso di
Emmanuel "Manny" Balestrero, contrabbassista in un locale notturno,
le conseguenze di questo errore si riveleranno tragiche. Manny, uomo onesto e
appassionato al proprio lavoro, vive insieme alla moglie e ai due figlioletti
un'esistenza relativamente tranquilla e felice; l'unico problema è una perenne
mancanza di denaro, alla quale la coppia riesce ad ovviare con un approccio
positivo ed ottimista nei confronti della vita. I guai cominciano quando Manny
si reca in un'agenzia di assicurazioni per chiedere un prestito come anticipo
sulla polizza della moglie, bisognosa di cure mediche costose. Scambiato dalle
impiegate dell'assicurazione per il rapinatore che ha messo a segno diversi
colpi nel quartiere, viene denunciato e la sera stessa arrestato dalla polizia.
E' l'inizio di un'odissea che porterà Manny fino al processo, in mezzo a disagi
ed umiliazioni di ogni tipo. La moglie Rose, nel frattempo, duramente provata
dalla situazione, crolla e finisce ricoverata in clinica per un grave
esaurimento nervoso che la porta alle soglie della pazzia. Incastrato da
circostanze incredibilmente sfortunate -per vari motivi tutte le persone che
potrebbero scagionarlo risultano irreperibili; la perizia calligrafica sembra
inchiodarlo; i testimoni oculari delle rapine concordano nel riconoscerlo come
il delinquente- nonostante l'assistenza di un avvocato tenace e comprensivo,
Manny sembra destinato ad una sicura condanna; solo un errore del vero
malvivente (neanche troppo somigliante al nostro protagonista), che gli costa
la cattura in un negozio di generi alimentari, rimetterà le cose a posto.
Tratto da un fatto di cronaca realmente accaduto, è il film
più umile, asciutto, anti-spettacolare e (solo apparentemente) dimesso del
regista, un episodio del tutto anomalo e per questo interessante
nell'itinerario artistico di "Hitch", distante anni luce dalle super
produzioni giallo/thriller hollywoodiane
che verranno e che garantiranno al maestro l'etichetta di "mago del
brivido". Sono le tonalità del grigio e gli accordi in minore le
coordinate sensoriali dominanti in questa piccola grande opera, girata senza
orpelli e a tratti quasi neorealista, attraversata da un'atmosfera mesta e pessimista che impone un'assoluta
austerità, sottolineata dalla rinuncia di Hitchcock ai suoi amati
"cameos" (il regista, molto eloquentemente, si concede soltanto un
breve prologo introduttivo nel quale avverte gli spettatori che in questo film
non ricorrerà ai consueti registri narrativi funzionali alla creazione della
tipica atmosfera hitchcockiana, bensì, trattandosi di una storia tratta da un
caso vero, si limiterà ad attenersi alla realtà pura e semplice, di per sé di
gran lunga superiore a qualunque sforzo di immaginazione).
C'è poco da spettacolarizzare, in effetti, in questa
desolante e sconsolata cronaca del calvario di un uomo qualunque che di punto
in bianco si vede stravolgere la propria esistenza senza una ragione
comprensibile: è il CASO, l'agente autarchico per eccellenza, l'eterna
variabile incalcolabile, a muovere gli ingranaggi della vita. Non c'è teodicea
o ratio che tenga di fronte all'ingiustificabile e inspiegabile punizione che
arriva a colpire un innocente: il caso dà, il caso toglie. In mezzo sta l'uomo,
in balia degli elementi, spettatore
impotente (purtroppo) della propria vita, partecipante ad un gioco di
cui non gli è concesso conoscere le regole.
A dare forma e sostanza alla visione hitchcockiana della
condizione umana provvede con una formidabile prova Henry Fonda, abilissimo,
nonostante fosse già un attore affermato, ad annullarsi fino ad assumere le
sembianze dell' "uomo della porta accanto" attraverso una recitazione
essenziale, misurata, asciutta, che lascia spesso agli sguardi il compito di
esprimere ciò che nessuna parola potrebbe. Il suo Manny è un onest'uomo
qualunque credibilissimo, nel quale diventa facile identificarsi (come negare
che il senso di colpa, la paura della colpa, è uno dei tormenti universali
dell'uomo? Rose impazzisce schiacciata da esso e lo stesso Hitchcock sembra
particolarmente ossessionato dall'argomento,il quale ricorre come tema portante
in altri suoi film, "VERTIGO" e "IO TI SALVERO' " su
tutti), specie per chi ha vissuto esperienze analoghe anche se in scala
ridotta; essere accusati ingiustamente, magari per piccole cose, è del resto
un'esperienza piuttosto comune. Al cospetto del caso, nemmeno la certezza di
compiere quotidianamente il proprio dovere e di procedere quindi nel percorso
della rettitudine morale, offre all'uomo garanzie di riparo dalla sventura; in
quest'ottica, assumono una forte valenza critica ed ironica (almeno agli occhi
di chi scrive), i vari riferimenti alla religione, retaggi della robusta
educazione cattolica -gesuita- ricevuta dal giovane Hitchcock: la madre che
raccomanda a Manny di pregare per il processo; Manny che segue il dibattimento
rigirandosi un rosario tra le mani, lo stesso che gli viene pietosamente
lasciato dalla guardia carceraria al momento di entrare in prigione; la
testimone d'accusa, che in una sorta di inquietante imitazione del bacio di
Giuda a Cristo si reca a toccare il colpevole in aula, su richiesta del
pubblico ministero... è il protagonista stesso a mettere in chiaro le cose
quando, alla madre che lo esorta a pregare Dio affinché gli conceda la forza di
affrontare il processo, replica laconicamente: "NON VEDO CHI MI POTRA'
AIUTARE, SE NON AVRO' UN PO' DI FORTUNA!" E la fortuna (forse l'intervento
di Dio, secondo il regista? Il dubbio in merito all'opinione di Hitch rimane,
dato che alla scena dell'arresto del criminale antepone l'inquadratura di
un'immagine del Cristo che Manny osserva con sguardo supplice) arriva subito
dopo, con la maldestra rapina che costa la libertà al bandito. E' sempre la
casualità dunque, in una sorta di processo circolare, che così come aveva dato
origine all'apertura del cerchio (Manny scambiato per il bandito dalle
impiegate dell'assicurazione), perviene alla sua chiusura (il
"cattivo" compie un errore, si fa catturare da un negoziante, viene
poi riconosciuto come il vero colpevole dallo stesso poliziotto che aveva
arrestato Manny, fine dell'incubo). Seppure spettino dunque al caso le
responsabilità -nel bene ma soprattutto nel male- maggiori in questa vicenda,
non possono però venir meno le mancanze e la complicità della giustizia da un
lato e delle persone comuni (testimoni d'accusa soprattutto) dall'altro. Quali
garanzie di equità e affidabilità offre un sistema giudiziario che istruisce un
processo "a diritto rovesciato", dove l'onere della prova spetta alla
difesa anziché all'accusa (sì, perché, nonostante siano fallaci, tutte le
argomentazioni dell'accusa paiono convincenti, e questo obbliga l'innocente a
produrre vere prove contrarie, atte a neutralizzare quelle false)? Quale
credibilità può vantare un corpo di polizia che dà prova di tale superficialità
nel condurre le indagini (la ridicola perizia calligrafia, gli approssimativi
confronti tra indiziati e testimoni, le umilianti passerelle del sospetto nei
luoghi del delitto)? Quale pofessionalità dimostra un pubblico ministero che
riporta come prove schiaccianti, travisandole completamente, le dichiarazioni
rese dall'imputato (l'innocente passione di Manny per le corse dei cavalli
diventa automaticamente un pretesto per insinuare che sia un giocatore
incallito con ingenti debiti verso gli allibratori)? Se la macchina della
giustizia assume qui gli inquietanti connotati del leviatano (a quale prezzo la
giustizia?), non va certo meglio se ci si sofferma sul comportamento delle
persone comuni: di quanta incoscienza e superficialità bisogna essere forniti,
per accusare un uomo dopo averlo riconosciuto -una delle impiegate
dell'agenzia- senza neanche averlo guardato (e non che gli altri testimoni
abbiano proceduto ad un'identificazione tanto meno frettolosa)? Di quale
autorità morale può godere un giurato che si rivolge in maniera tanto
sprezzante e faziosa verso la Corte (circostanza abilmente sfruttata dal
difensore di Manny per chiedere ed ottenere la ricusazione della giuria)? Con
quale coraggio le testimoni potranno guardare Manny negli occhi (e infatti non
ci riescono, liquidando il momento imbarazzante con finto sdegno) dopo aver
appreso la verità? Come mai non hanno nemmeno la decenza di pronunciare due
parole di scusa? Non c'è nulla che possa indurre all'ottimismo, in questa
storia: tutto si risolve positivamente, ancora una volta, soltanto grazie al
caso e non certo all'uomo! Quante probabilità di uscirne indenne avrebbe avuto
Manny, pur con tutta la volontà e la forza di questo mondo, se il vero colpevole
non fosse stato catturato e avesse dovuto quindi contare SOLO sulle proprie
risorse? Sta proprio in questa amara constatazione il cuore del messaggio
pessimistico di fondo trasmesso dal film: l'uomo non è padrone del proprio
destino. Coerentemente a tale assunto, pur ritrovandosi costretto, data la
volontà di attenersi ai fatti, a raccontare il lieto fine della storia,
Hitchcock decide di affidare il finale ad un'asettica didascalia di chiusura,
priva persino del commento sonoro trionfalistico di prassi. E' questa
l'esposizione più fedele ed efficace di una conclusione felice solo
formalmente: un'esperienza così terribile non può non lasciare strascichi
psicologici permanenti in colui che l'ha vissuta e non basta un'assoluzione a
cancellare le umiliazioni, i soprusi e le sofferenze patite da una mente che
porta ormai impresso a fuoco il marchio dell'ingiustizia, come testimoniano gli
occhi smarriti, stremati, increduli di Manny anche dopo aver saputo che il suo
supplizio è finito (in quella che è forse la scena più intensa del film, il
nostro si ritrova faccia a faccia col suo "carnefice", al quale
riesce solo a dar la colpa dell'esaurimento della moglie, senza particolare
enfasi né rancore, tale è lo stato di prostrazione in cui si trova Manny).
Viene spontaneo, almeno per lo spettatore italiano,
stabilire un parallelo tra il film e quello che nella memoria collettiva del
Paese rimane forse l'esempio più celebre di malagiustizia: il caso Tortora. Per
un grossolano errore di valutazione nel corso di un'indagine su fatti di
camorra (durante un sopralluogo in casa di un camorrista, viene rinvenuta
un'agenda telefonica con su scritto, accanto ad un numero telefonico, il nome
"TORTONA", poi scambiato per "TORTORA"), avviata sulla base
delle dichiarazioni mendaci di alcuni pentiti, il noto giornalista e conduttore
ligure fu arrestato, in un clima da gogna mediatica e nell'incredulità
generale, il 17 giugno 1983, con l'accusa di associazione a delinquere di
stampo camorristico; un'agendina col nome storpiato, alcune dichiarazioni di
pentiti: tutti qua gli indizi sui quali si resse l'impianto accusatorio. Anche
in questa circostanza fu il caso, agevolato dall'inefficienza della giustizia e
dal pregiudizio della gente (semplicemente impressionante il clima giustizialista
che pervase gran parte dell'opinione pubblica e della stampa dell'epoca), a
sparigliare le carte di una vita intera, purtroppo in modo irreversibile : solo
più di tre anni dopo, il 15 settembre 1986, arrivò l'assoluzione in appello per
un uomo che aveva subito sette mesi di carcere e una condanna in primo grado a
dieci anni di reclusione. Ma quello che il 20 Febbraio 1987 si ripresenta al
pubblico televisivo con la sua amata "PORTOBELLO" è un individuo
quasi irriconoscibile: invecchiato e recante nello sguardo i segni di una
sofferenza indicibile, Tortora è la personificazione della sua stessa tragedia.
Gli occhi acquosi di Manny assomigliano fin troppo nettamente a quelli
immortalati in primo piano dalla telecamera di Raiuno quella sera di febbraio,
e sono occhi che dichiarano a chiare lettere che nulla più sarà come prima.
Sulla vicenda Tortora il regista Maurizio Zaccaro ha girato nel 1999 il
discreto film "UN UOMO PERBENE ", con Michele Placido nei panni del
protagonista.
Francesco Vignaroli
Nessun commento:
Posta un commento