A distanza di pochi mesi dall’uscita nelle sale
di Le avventure di Tintin – Il segreto
dell’Unicorno,
Steven Spielberg torna letteralmente a cavalcare l’onda cinematografica (o, più semplicemenete, solo a cavalcare) di quest’inizio stagione 2012. E lo fa raccontandoci una storia epica di ampio respiro che tocca i temi ai quali il regista è più affezionato. Temi che, non a caso, costituiscono il marchio di fabbrica della sua opera. Da questo punto di vista l’ultima fatica del regista si inanella perfettamente nella poetica spielberghiana, rispolverando coscientemente quella capacità affabulatoria che ne ha fatto uno dei più grandi e sinceri narratori di fiabe ad alto contenuto emotivo.
Steven Spielberg torna letteralmente a cavalcare l’onda cinematografica (o, più semplicemenete, solo a cavalcare) di quest’inizio stagione 2012. E lo fa raccontandoci una storia epica di ampio respiro che tocca i temi ai quali il regista è più affezionato. Temi che, non a caso, costituiscono il marchio di fabbrica della sua opera. Da questo punto di vista l’ultima fatica del regista si inanella perfettamente nella poetica spielberghiana, rispolverando coscientemente quella capacità affabulatoria che ne ha fatto uno dei più grandi e sinceri narratori di fiabe ad alto contenuto emotivo.
La storia – un adattamento dal libro War Horse di Michael Morpurgo – è vista e narrata attraverso gli occhi di
Joey, un puledro purosangue nato e cresciuto nel Devon, una regione a sud della
Gran Bretagna, e che è a conti fatti il protagonista assoluto. Sin dall’inizio,
prima ancora di essere in grado di reggersi sulle zampe, lo sguardo di Joey
incontra quello del giovane Albert Narracott (Jeremy Irvine), siglando da
subito quello che sarà uno (il) dei motivi trainanti della pellicola: la
profonda amicizia tra un ragazzo e il suo cavallo, capace di attraversare
lunghe distanze, superare ostacoli e scampare gli orrori della guerra stessa.
Spielberg decide di aprire il film con un’ampia
panoramica atta a contestualizzare l’ambientazione, di chiaro stampo pastorale,
che farà da cornice ai primi capitoli della storia. Ampi spazi aperti, campi
coltivati, colline lussureggianti e un cielo limpido. Il tutto esposto a una
fotografia brillante e sostenuto da una magistrale Suite del sempre infallibile
John Williams. È senz’altro un esplicito omaggio ai paesaggi western di John
Ford che spesso, anziché essere solo uno sfondo, raccontavano storia e
personaggi. Un po’ come accade nel film di Spielberg del resto, dove,
all’arrendevole bellezza delle campagne inglesi corrisponde l’altrettanto ardua
sfida al terreno arido e sassoso della famiglia Narracott, loro unica risorsa
economica. Il primo ostacolo per Albert e Joey è dunque rappresentato dalla
natura stessa. Albert, che ha convinto il padre Ted (Peter Mullan) a lasciargli
addestrare il purosangue con il quale è già entrato in sintonia, dovrà
dimostrare a tutti che credere fermamente in qualcosa è il punto di partenza
per renderla concreta. E così accade: spronando Joey fino all’inverosimile,
facendo leva sul feeling che si è creato tra loro e grazie alla sensibilità
profonda dell’animale verso l’uomo, Albert riesce nell’impossibile. A coltivare
quel terreno tanto aspro e a suggellare l’amicizia con l’animale con una
fiducia reciproca. Ma l’idillio è breve: la Guerra, presente dall’inizio del
film come un’avvisaglia, un rombo di tuono in lontananza, travolge in un lampo le
esistenze di tutti, senza risparmiare nessuno. La stessa guerra che Ted
Narracot si rifiutava di raccontare nonostante l’interesse del figlio nel voler
seguire le orme del padre. Ed è proprio per colpa del conflitto che, come si
dice nel film, “Porta via a tutti di qualcosa o qualcuno”, Albert e Joey
vengono divisi. Ted, con la speranza di guadagnare qualcosa, decide di vendere
il cavallo a un ufficiale dell’esercito segnando così il suo ingresso nei campi
di battaglia e l’inizio vero e proprio del suo viaggio.
La guerra, il viaggio, la perdita – ma anche il
rapporto tra due creature diverse –
sono punti fermi nella filmografia spielberghiana. Non a caso dallo scoppio
della Guerra e dal conseguente allontanamento di Joey da Albert, il film ruota
tutto attorno all’epica – e al tempo stesso tragica – odissea che il
protagonista deve affrontare per ritornare a casa. Il percorso di Joey si
trasforma da ora in avanti in un’avventura costruita come un mosaico, dove a
ogni tessera corrisponde un blocco narrativo che lo mette in relazione con
personaggi appartenenti a tre nazioni diverse (Inghilterra, Francia e
Germania), che condividono l’impegno nel conflitto bellico. Tali tappe, oltre
ad arricchire il bagaglio di esperienza del protagonista, offrono allo
spettatore punti di vista e storie diverse sullo scenario della guerra.
E se la guerra rappresenta l’ostacolo più duro
da superare è anche la parte dove la mano di Spielberg si fa più sentire. Come
ai tempi di Salvate il soldato Ryan,
(e allo stesso tempo facendo un passo indietro rispetto all’estremo e
sanguinoso realismo, perché in fondo, War
Horse è una favola) i momenti in cui il focus del film stringe sulla
battaglia offrono uno spaccato impeccabile della vita nella trincea. La
fotografia di Kaminski, prima luminosa, si veste ora degli orrori che toccano i
personaggi: lugubre, sporca e impastata.
In una delle prime scene di battaglia Steven
Spielberg dimostra come il dramma della guerra è tanto più forte perché le
eroiche cariche della cavalleria sono diventate obsolete, sostituite dalla
furia devastante e cieca delle armi moderne. A Joey, che ha perso il proprio
cavaliere (l’ufficiale che l’ha comprato dai Narracott), non resta che fuggire
guidato solo dal suo istinto di sopravvivenza, grazie anche alla compassione e
alla gentilezza di alcune delle persone che incontrerà attraverso il suo
percorso. Dal giorno alla notte, in tutte le direzioni e senza fermarsi mai
correrà per fuggire dal Male stesso che lo circonda e riunirsi all’amico.
L’ultimo atto della pellicola, infatti, accelera
vertiginosamente trasportando lo spettatore nel bel mezzo del campo di
battaglia (‘la-terra-di-nessuno’ come viene chiamato) scaricandogli addosso uno
tsunami di emozioni. Si tratta di raggiungere il picco massimo del virtuosismo,
esaltato da una sequenza da antologia del cinema dove il cavallo corre
letteralmente attraverso la guerra, circondato da esplosioni, colpi di fucili e
cannoni, messo alle strette dagli stessi carri armati sulle note di una
monumentale colonna sonora (l’estratto in questione, non a caso, s’intitola ‘No
Man’s Land’). Con un montaggio frenetico ma stabile Spielberg ci racconta la
fuga verso la salvezza di Joey che, dopo le ultime difficoltà, riesce a
ricongiungersi a un Albert che ha vissuto, allo stesso modo, la guerra sulla
propria pelle. Molti sono morti, ma lui come il suo animale ne è uscito vivo.
Come Joey, riporta sul proprio corpo e nella memoria i segni indelebili di un’esperienza
irripetibile e impietosa. Solo ora, attraverso una crescita da ‘romanzo di
formazione’, comprende perché il padre si è sempre tirato indietro dal
rievocare quegli eventi.
Come nella più classica delle fiabe Spielberg
non si sottrae al piacere di regalare allo spettatore un tanto sperato Happy
End. E’ la morale cui ci ha abituato il regista duranti tutti questi anni, è
quello che ci aspettiamo, che sogniamo ardentemente e che è senz’altro
necessaria in un film di genere. Si sa, ‘l’eterno Peter Pan’ ha il gusto per un
buonismo a tratti smielato, per l’ottimismo e la commozione. Sono quei tratti
che la critica contesta e che sempre contesterà ma che al contrario non
deluderanno mai i suoi fans. Così quando l’ultima inquadratura incornicia la
famiglia riunita immersa in un tramonto pittorico (un po’ ‘posticcio’) sentiamo
di essere, anche se non pienamente, soddisfatti della storia cui abbiamo
assistito. E sentiamo anche di poter sorvolare, in parte, su quelle scene e
dialoghi un po’ forzati, scontati e da manuale, che mancano di una collocazione
precisa nella storia. Coerenti con la narrazione ma un po’ deboli nella
struttura dello script. Alla fine usciamo dalla sala sapendo di aver assistito a
uno Spielberg certamente fedele a se stesso, coinvolgente ed emozionante ma che
forse non è stato in grado di consegnarci, salvo che non si tratti di sottili
echi, una perla che brillerà nella storia del cinema come in passato è riuscito
a fare.
Riccardo Ceccherini
Nessun commento:
Posta un commento