La palla illuminata
Era
una persona comune, con un lavoro comune, una moglie comune. Una vita sulla
media, come quella di tanti altri; una vita di vittorie, sconfitte,
soddisfazioni, rancori. Aveva cinquantadue anni e si può dire che, anche se il
periodo più vitale della sua esistenza era passato, i sogni irrisolti
rimanevano. Non aveva figli, ma una moglie con cui aveva avuto prima un legame
amoroso e poi uno d’affetto e di pace, come accade a tutte quelle coppie che,
passata la passione, riescono a rimanere insieme legate da un reciproco
rapporto affettivo. Viveva in Germania e amava la sua patria, dove aveva
lavorato in una fabbrica per molti anni e giocava a calcio e a carte come molti
di quelli che cercano dei passatempi. Aveva molti amici, un gruppo con cui si
vedeva dai tempi delle scuole. Si volevano molto bene e furono proprio loro,
gli amici, a fargli il più bel regalo della sua vita, permettendogli di
esaudire un sogno.
Una
cosa che non abbiamo detto è che purtroppo si era irrimediabilmente e improvvisamente
ammalato di un male incurabile che gli avrebbe permesso di vivere ancora per
pochi mesi. Il dolore della moglie e degli amici fu immenso, ma nessuno di loro
si scoraggiò e decisero che gli ultimi momenti di vita del loro compagno
sarebbero stati felici, perché l’obiettivo di tutti è quello di morire con il
sorriso tra le labbra.
Niente
c’è di più felice di poter realizzare un sogno e tutti quanti sapevano qual era
il sogno che lui avrebbe voluto realizzare. Amava la pittura rinascimentale italiana
e le sonate di Galuppi; i paesaggi toscani, il sole che bagna con il suo fuoco
i campi della campagna: il suo sogno era quello di fare un viaggio in Italia;
quel viaggio di cui aveva potuto fino a quel punto leggere soltanto
nell’omonimo libro del grande Goethe, studiato a scuola.
Partirono
allora, lui, la moglie e gli amici alla ricerca della felicità, quella felicità
che sarebbe dovuta essere la definitiva.
La
permanenza fu tutto sommato piuttosto lunga e durò venti giorni, venti giorni
in cui si dimenticò in larga parte del suo male incurabile.
Ammirò
in quel viaggio gli ultimi contadini italiani che, ahimè, vicino
all’estinzione, aravano e falciavano i campi e facevano vendemmia. Era bello
osservarli lì, nel loro ambiente, con la loro profonda cultura della natura,
che il più grande letterato non può conoscere, se non ha mai portato una balla
di fieno sulle braccia. Bello era vederli mentre s’abbronzavano sotto quella
palla illuminata, che è il sole, un sole che così tanto illuminato non si vede
mai nella terra tedesca. Era bello vedere quella sorta di piccoli archi pieni
di perle viola e verdastre: le vigne: non c’è cosa più splendente e ricca della
natura, niente di più piacevole all’occhio umano.
Erano
stati ospitati in Toscana da una signora che gestiva una casa per vacanze e che
li trattò con grande gentilezza, offrendo loro anche una cena di piatti tipici
italiani. Mangiava le lasagne, assaggiava il vino rosso e l’olio appena tolto
dagli ziri e si dimenticava di tutto il suo tormento: basta poco per
dimenticare, perché i più grandi piaceri si ritrovano nel poco, quel poco che è
tanto, e quando, in quei momenti di riflessione, non riusciva a prendere sonno,
non ripensava mai alle sue soddisfazioni lavorative e materiali, ma ripensava a
quando aveva bevuto quella birra con quell’amico che non rivedeva da vent’anni,
oppure, ancora, ripensava alle notti di amore appassionate con sua moglie,
oppure, ancora, a un libro che aveva adorato o a una sonata per violino o
pianoforte, oppure, ancora, ripensava a una stella o un plenilunio. Erano le
cose della natura e le opere dell’ingegno umano che gli portavano felicità,
quello che Dio ci ha dato e non quello che ci ha dato la società dove,
dopotutto, ci sono sì delle soddisfazioni, ma certo superflue.
Andarono
anche a vedere qualche pinacoteca italiana e gli scuri colori di Caravaggio, la
divina perfezione di Raffaello e i corpi voluminosi del Signorelli rimasero a
tutti nel cuore.
D’altra
parte non poteva mancare neanche un’entrata al teatro dell’opera; dovevano per
forza vedere un’opera nel paese in cui l’opera è stata inventata. Dettero L’elisir d’amore di Donizetti e dalle
critiche che si leggono non sembra che quella serata fu particolarmente felice
dal punto di vista artistico, eppure per lui fu perfetta e alla fine applaudì
con grande slancio quello che per lui era stato un capolavoro: il suo sogno era
giunto al compimento e dai suoi occhi scendevano lacrime d’argento e ancora
piangeva quando, mentre tutti dormivano, stava appoggiato alla finestra sapendo
che l’indomani sarebbe stato il giorno della partenza, del ritorno in patria.
Guardava la palla illuminata nel cielo, quella palla che di giorno si chiama
sole, la sera luna. La guardava e quella notte era così splendente da schiarire
l’orizzonte. D’istinto accese una sigaretta perché si era convinto che vale
comunque la pena di vivere appieno gli ultimi piaceri. Guardava sognando, senza
riflettere, guardava soltanto, di quel guardare che è il più espressivo, di
quel guardare che è una forma d’Arte, guardava felice e il suo spirito ancora cantava
le melodie di Donizetti e i suoi occhi ricoperti di lacrime ancora s’innalzavano
rivedendo davanti a loro le madonne di Raffaello; la sua pelle ormai sentiva in
sé l’ardore del sangue italiano. Spense la sigaretta, uscì l’ultima lacrima e
se ne andò a dormire con un’anima così piena e ricca che non aveva mai sentito
fino ad allora.
Era
in un letto d’ospedale di Berlino quando sua moglie e i suoi amici lo
osservavano spirato verso il non si sa.
Per lui le candele si erano spente definitivamente, ma quel giorno la sua bocca
sembrava quasi sorridere e i suoi occhi avevano una strana intensità, era come
se in loro vivesse un grande bagliore, una grande palla illuminata.
Stefano Duranti Poccetti
Nessun commento:
Posta un commento