Gabbiani |
Solo
nero, bianco, a volte del grigio, come se chiaro e scuro fossero
entrati l’uno nell’altro, per un casuale momento d’amore, perché la realtà di Mario Giacomelli non è fatta di
colore, i ricordi si ricordano, o si dimenticano, nel nero come la pece o sotto la luce accecante delle montagne
marsicane, per incidere la vita di forti
contrasti affinché nulla sia banale, o annacquato da toni superficiali,
falsamente allegri, superficialmente indolori.
Giacomelli,
a parte una breve sequenza scattata in Tibet, non è mai andato lontano dalla
propria terra, le è rimasto aggrappato come un bambino al seno della madre,
succhiandole la vita anche quando ormai è diventata vecchia e vita non ne ha
più, ma lui ce la ridà attraverso questi duecento scatti che formano l’importante
mostra di Palazzo Ducale a Genova e che rimarrà aperta fino al 19 agosto.
Il
suo è un amore viscerale per i campi, le spiagge, i contadini, i preti,
Giacomelli vola sopra di loro come un gabbiano, quei meravigliosi gabbiani
delle sue foto che sono nuvole, comete, respiri di Dio, fatti di luce senza
luce. L’espressionismo di Giacomelli è
come un film di Murnau, figurine lontane, scure scure, potrebbero essere preti,
vampiri, corvi, donne, uomini, accomunati dallo stesso obbiettivo, visti dagli
stessi occhi, fermati nel tempo da lui, l’autodidatta che sapeva, pur facendo
il tipografo, che sarebbe stata la fotografia, quella istintiva con tutta la mancanza di tecnica e
di studio di cui lui stesso ci parla, a prenderlo in pieno e a non lasciarlo
più.
La
mostra, esaustiva e, in quello scenario di Palazzo Ducale, i soffitti a volte, il
fresco delle grandi stanze, fuori Genova è torrida e immobile, è un’altra
conferma del perché Giacomelli, pensando di fare della fotografia, in realtà ha
fatto poesia, poesia senza tempo, che aleggia sopra di noi, che piccoli
aspettiamo di essere fotografati da lui. Per rimanere un po’ anche dopo.
Mario Giacomelli |
Giacomelli
non ci vuole stupire, eppure ci stupisce, non cerca lodi, eppure ce le strappa
continuamente, non studia il perché e il per come, e questo ce lo rende
simpatico, vicino, autentico, non vuole mostrarci il lato bello della vita,
eppure non possiamo che abbandonare lo sguardo sui quei vecchi dell’ospizio e
ci viene voglia di carezzarli, di tener loro compagnia, discretamente, con
amore. Come ha fatto lui. E di vederli belli.
Giacomelli
fotografava con una macchina assemblata da lui stesso, non si curava delle regole dell’ottica, ma ci
arrivava per caso, per intuito, respirava la vita attraverso quel mirino, la
voleva lasciare immutata, perché sapeva che dopo ci sarebbe stata la inevitabile
morte, ma in quel momento era il battito dei cuori dei pretini, dei contadini,
dei vecchi dimenticati che lo interessava.
Quelle
coppie senza denti, abbracciate, strette in mantelline nere, o avvoltolati in
lenzuola da cui spuntavano nasi raggrinziti, mani rattrappite, capelli radi e
sporchi, erano i suoi eroi, le sue creature, i suoi compagni di vita.
E i
campi della sua terra si stendono sotto ai suoi occhi di fotografo segnati come
rughe da quei solchi che però sembrano fatti dal rastrello di un bambino cha al
mare incide la sabbia e ci disegna onde, rette, parallele e poi ci costruisce i
castelli dei suoi sogni.
Campagna marchigiana. Presa di coscienza sulla natura. |
La
natura si anima, vive, invecchia, soffre, ci dona i suoi frutti, o si nasconde
d’inverno, e diventa simile ai suoi abitanti che camminano a fatica nella neve,
o giocano a bocce con tanto di cappello sulla testa, o soffrono lontano dai
loro cari, in letti che non sono i loro.
Giacomelli
ha l’aspetto di uno sciamano, di un antico capo tribù, del saggio, ma con una
vena di pazzia, quella che hanno i grandi, e che senza di quella non potrebbero
creare , ma al posto del bastone di bambù, o di altri segni di potere, tiene
tra le mani la sua macchina fotografica, arma pacifica di tante battaglie per
la conquista di un posto nel mondo
sublime dell’arte, ovverosia dell’immortalità.
Giacomelli
nacque a Senigallia il primo agosto del 1925 e qui morì il venticinque novembre
del 2000, fu tipografo per tutta la vita
e fotografo per sempre.
Daria D.
Bellissimo questo articolo, ora ho voglia di vedere questa mostra fotografica perche sembra davvero poetica ed evocativa ..come tutto quello che scrivi tu, Daria!...lo sai che mi commuovi sempre!!
RispondiEliminaErika