Mi
chiama il selvaggio dentro di me
la
sua eco si scontra con l’uomo mascherato fuori di me
Mi
chiama e piange
mi
chiama e ride
mi
chiama e scoppia
Urlo
animale del selvaggio
bisbiglia
un verbo primordiale
e
richiama la pura e dolce età dell’oro.
“Selvaggio”, di S.D.P.
Buio in scena, ma non
è il buio di un finale, ma di un inizio, un inizio in cui lo spettatore vede un
pavone, formato dalla coppia di due danzatrici, che rotola solennemente verso
il fondo della scena, finché non s’infrange contro il sipario, che cade
letteralmente sotto lo sguardo del pubblico.
Si
tratta dell’esordio dello spettacolo di danza contemporanea “Tristi Tropici”,
della Compagnia Virgilio Sieni. Dal titolo si capisce subito il palese
riferimento al celebre omonimo libro che Claude Lévi-Strauss pubblicò nel 1955.
Questo è un testo in cui l’antropologo francese ricorda, quasi con una
nostalgia del non ritorno, le tribù indigene del Brasile, conosciute nella sua
gioventù, e di queste spiega la cultura, le tradizioni, i riti del villaggio.
A
dire il vero, se il riferimento è tanto ovvio nel titolo dell’esibizione, non
lo è altrettanto per quanto riguarda il suo pratico svolgimento. Se non
conoscessimo il nome della performance riusciremmo ad assimilarla alla
pubblicazione dell’inventore dell’antropologia strutturale? Di sicuro molto
difficilmente. Rimangono comunque vari elementi che congiungono i “Tristi Tropici”
di Lévi-Strauss a quelli di Virgilio Sieni -regista, coreografo, creatore della
messa in scena- e scopo di questo studio è proprio quello di metterli in
relazione tra di loro.
Ma
andiamo per ordine e cominciamo a parlare dello spettacolo per poi, trasversalmente,
parlare di tutto il resto. “Tristi Tropici” è una rappresentazione della durata
di circa cinquanta minuti ed è diviso in tre parti ben strutturate e bilanciate
tra di loro (che prossimamente tratterò una ad una), come accade spesso nelle
creazioni di Sieni. Si tratta di un equilibrio sia per quanto riguarda la
lunghezza temporale sia per quanto riguarda l’intensità delle scene e dei loro
contenuti, create dalla gestualità delle performers -si tratta di uno
spettacolo tutto al femminile- e dagli effetti cromatici delle luci, che danno
luogo ad atmosfere immaginifiche.
Ho
già parlato dell’incipit, della “introduzione” del “Tristi Tropici” portato in
scena, in cui già emerge un elemento che porta con sé una grande forza
simbolica ed evocativa: il pavone.
“Il pavone rappresenta l’elemento
trasfigurante, meraviglioso, tentacolare del mondo asiatico. Vedo la prima
parte dello spettacolo come un’uscita. C’è un animale lungo e umano, colto nel
momento in cui esce di scena, strisciando, già un po’ in agonia”[1].
Sono
le parole dello stesso Virgilio Sieni, che pone questo elemento come un
benvenuto verso il meraviglioso, quel meraviglioso che rischia di andare
perduto, se non lo è già, anche per lo stesso Lévi-Strauss:
Capisco allora la passione, la follia,
l’inganno dei racconti di viaggio. Essi danno l’illusione di cose che non
esistono più e che dovrebbero esistere ancora per farci sfuggire alla desolante
certezza che ventimila anni di storia sono andati perduti. Non c’è più nulla da
fare: la civiltà non è più quel fragile fiore che, per svilupparsi a fatica,
occorreva preservare in angoli riparati di terreni ricchi di specie selvatiche,
indubbiamente minacciose per il loro rigoglio, ma che permettevano anche di
variare e rinvigorire le sementi. L’umanità si cristallizza nella monocultura,
si prepara a produrre la civiltà in massa, come la barbabietola. La sua mensa
non offrirà ormai più che questa vivanda.[2]
Il
senso del meraviglioso perduto sembra quindi essere uno dei temi portanti sia
del libro di Strauss che della rappresentazione del coreografo fiorentino e non
è un caso che, subito dopo l’uscita di scena del pavone e la caduta del
sipario, ci sia spazio per una brevissima sequenza, quasi un flash, in cui si
notano in lontananza, in mezzo a un gioco di luci azzurre, due figure umane
appena visibili che, tenendo le braccia alzate, sembrano dei totem. Pare un po’
l’immagine di una civiltà perduta, non più presente nella realtà, ma possibile
da evocare solo grazie al filtro dell’immaginazione e del ricordo.
Non
c’è una vera e propria musica che accompagna lo spettacolo, quelli che
l’accompagnano sono invece rumori, echi -anche questi lontani, quasi
immaginari- che creano un’atmosfera di sospensione che ci catapulta fuori della
realtà e ci fa cadere dentro il mondo dello spettacolo: il meraviglioso mondo
delle civiltà lontane.
Solo
dopo il flash di cui abbiamo parlato si può dire che la parte introduttiva è
stata superata e che siamo arrivati al primo capitolo del nostro percorso,
quando vediamo due danzatrici in primo piano –Simona Bertozzi e Michela
Minguzzi- disposte inizialmente inginocchiate a terra, che, abbracciate tra di
loro, formano una sorta piramide, come accade sovente nelle rappresentazioni
dei quadri rinascimentali -quella dell’arte visiva è una cultura molto cara al
coreografo Sieni.
Le
performers cominciano a ondulare braccia e mani, dando vita a una gestualità
solenne e anche “affettuosa”, perché nel fare questi movimenti si sfiorano, si
accarezzano a vicenda, muovendosi in un modo tale da farci pensare a una
tecnica: la contact improvisation, di
cui lo stesso regista non nasconde l’importanza che ha rivestito nella sua
formazione professionale:
La contact
improvisation aiuta a lavorare sulle gravità esistenti ed effettive e tutto
sta nel darle e nell’accoglierle. È come quando lasci cadere una bottiglia, non
cade lentamente, cade come deve cadere. E così anche il corpo. Come disattivare
allora tutta una serie di resistenze? Una volta che il corpo cade, però, sorge
un nuovo problema. Non si tratta solo di far cadere. A volte ci si ferma lì. Si
tratta, invece, di percepire il momento in cui tu sei capace di trasmettere
questa tua caduta a un altro movimento o muscolatura o articolazione o quello
che vuoi. È in quel momento che si origina la dinamica. La caduta di per sé ti
porta a cadere in terra e a rimanere fermo.[3]
Continuano così le danzatrici, in questa
ieratica danza, una danza di “sospensione” che sembra non volere mai smuoversi
dalla ripetitività delle immagini figurali –non figurative- create. Si
accarezzano ancora, cominciando a giocare anche con le proprie vesti, si
mettono distese a terra, per poi riportarsi ancora accovacciate; continua così
questa sequenza, con gli stessi “movimenti a onda”, eleganti e solenni, quasi
sacri e “affettuosi”, fino a quando qualcosa non si smuove: le danzatrici
trovano qualcosa, si tratta di due strisce di carta e cominciano, ciascuna con
la sua, a dare loro una forma. Lavorano a specchio, dove le due si “copiano” a
vicenda con una precisione accurata, fino a quando l’opera non si è conclusa…
hanno composto una particolare figura geometrica composta dalla sagoma di tre
gocce d’acqua, pare un arabesco questo oggetto, un oggetto che le due
protagoniste della scena si mettono davanti al volto: è una maschera, una di
quelle maschere (più precisamente si parla di pitture del volto) di cui lo
stesso Lévi-Strauss parla analizzando la tribù dei Caduvei:
[…] Alle donne sono riservate la
decorazione della ceramica e delle pelli, e le pitture corporali che vengono
eseguite da alcune con raro virtuosismo.
Il loro viso, e a volte il loro intero corpo, è coperto
da una rete di arabeschi asimmetrici alternati a motivi di una sottile
geometria. […] Mi ero proposto in principio di fotografare i visi, ma le
esigenze finanziarie delle belle della tribù avrebbero presto esaurito le mie
risorse. Provai allora a tracciare dei visi su fogli di carta suggerendo alle
donne di dipingerli come se fossero i loro propri volti; il successo fu tale
che rinunciai presto ai miei goffi disegni. Le disegnatrici non erano per nulla
sconcertate da quei fogli bianchi, il che dimostra l’indifferenza della loro
arte per l’architettura naturale del volto umano. Oggi i Caduvei si dipingono
soltanto per essere più piacenti; ma un tempo quest’uso aveva un significato
più profondo. Dalle testimonianze di Sanchez Labrador, le caste nobili si
dipingevano solo la fronte, mentre il volgo si ornava tutto il viso.[4]
[…] A che cosa, dunque, serve l’arte
caduvea?
Abbiamo risposto parzialmente alla domanda, o piuttosto
gli indigeni l’hanno fatto per noi. Le pitture del viso conferiscono anzitutto
all’individuo la sua dignità di essere umano; esprimono il passaggio dalla
natura alla cultura, dall’animale “stupido” all’uomo civilizzato. Inoltre,
diverse quanto a stile e a composizione secondo la casta, esprimono in una
società complessa la gerarchia delle leggi, e possiedono così una funzione
sociologica.[5]
Finito
questo le danzatrici si alzano, prendono le loro vesti e sembrano andarsene,
mentre cala il buio in scena. È forse simbolo di una comunità costretta a
fuggire a causa dell’insediamento della nostra civiltà incapace di capire e di
tutelare l’altra? –come, l’abbiamo già visto, sembra emergere dal punto di
vista dell’antropologo francese- Può darsi, e pare anche che questa comunità
cerchi un altro luogo dove esprimersi, se, non appena le luci si riaccendono,
troviamo in scena ancora le due performers che, stavolta, non si cimentano più
nella “danza delle onde”, ma, anzi, sembrano proporre una danza animalesca
(d’altra parte è chiara la vicinanza, per queste popolazioni, tra animale e
uomo e della naturalezza del loro rapporto ce ne parla anche Lévi-Strauss: “A volte il silenzio era rotto da animali per
nulla spaventati dall’uomo: un veado, capriolo attonito a coda bianca: bande di
imu, piccoli struzzi, o un volo di gazze bianche radente la superficie
dell’acqua”[6].), una
danza libera, che possa restituire la libertà perduta. Si tratta di una danza
frenetica, ma che è anche, in qualche modo, controllata dalle performers; poi
ancora un abbassamento delle luci e ancora un cambiamento quando vengono
rialzate: le due danzatrici non sono più in atteggiamenti animaleschi, ma
perfettamente verticali, umane –è forse l’evoluzione della specie quella che ci
sta manifestando Sieni? Può essere, è un’ipotesi che non può essere esclusa- e
cominciano a muoversi anche qui con frenesia, continuando a mantenere la
verticalità, ma con delle cadute verso il suolo che le fanno tornare al piano
animalesco. Su questo tema, sul rapporto tra danzatore, linee corporee e come
queste si relazionano allo spazio (uno spazio che diventa veramente un
protagonista della scena) sono utili le parole di Sieni.
Lo spazio è l’origine e il corpo del
danzatore inizialmente non è un corpo che agisce ma un corpo che comprende. È
un corpo che ha degli organi e che quindi considera il fatto di un
galleggiamento interno e di una sospensione verso gli organi, nelle acque. Ci
sono allora due sospensioni, quella dello spazio e quella del corpo interno del
danzatore, due sospensioni che cercano di compenetrarsi tra di loro senza
agire. Non si deve pressare il corpo per fargli iniziare un’azione, lo spazio
non deve essere occupato. Spazio e corpo interno si devono lasciare
compenetrare e chi riuscirà a dare maggiore soffio metterà in moto la prima
articolazione, la prima cosa apparirà ma sempre in una forma sospesa.[7]
Il
rapporto con la terra si fa forte in questo ultimo frangente della prima scena,
in cui le danzatrici continuano a muoversi con agitazione, ricominciando a
farsi forte lo spirito bestiale, ma è inaspettato lo ieratico finale, in cui
vengono alzati al cielo dalle performers due grandi tondi, simboli di totem
divini, forse i mariddo della cultura
Bororo:
Tre giorni dopo le cerimonie s’interruppero,
per poter preparare il secondo atto: la danza del mariddo. Squadre di uomini andarono nella foresta a raccogliere
palme verdi che furono anzitutto sfogliate e poi sezionate in tronconi di circa
trenta centimetri. Con legature grossolane di frasche secche, gli indigeni
unirono quei tronconi in gruppi di due o tre, alla maniera delle sbarre di una
scala pieghevole, lunga diversi metri. Fecero così due scale ineguali, che in
seguito arrotolarono per formare due dischi pieni, del diametro di circa un
metro e mezzo per il più grande e di un metro e trenta centimetri per l’altro.
I fianchi vennero decorati di foglie trattenute da una rete ci cordicelle di
capelli intrecciati. Questi due oggetti furono solennemente trasportati in
mezzo alla piazza, uno accanto all’altro. Sono i mariddo, rispettivamente maschio e femmina, la cui confezione
spettava al clan di Ewagudda.[8]
Riprendendo
con la mise en scène, sembra che siamo passati dal piano animalesco a quello
umano, e da quello umano al piano della credenza nel divino (o a quello
dell’immaginazione). Il percorso umano sembra essersi concluso, ma il tutto si
è svolto sotto un velo di mistero, dove le performers hanno danzato confuse in
una luce spettrale: il tutto pare così un sogno, un ricordo, una rievocazione passata,
in cui i movimenti delle protagoniste sono stati prima ondulati, poi frenetici,
poi ancora ondulati, poi di nuovo frenetici, come se l’iter corporeo sembri
sempre costretto a “sfarsi e disfarsi”, senza poter raggiungere mai la sua
completezza, come del resto afferma il filosofo Giorgio Agamben, amico e
collaboratore del coreografo fiorentino, a cui si rivolge scrivendo:
Forse è questo che avevi in mente
quando nei tuoi appunti scrivevi del “danzatore che perde il suo gesto
afferrandolo solo nell’atto della sua scomparsa”. O quando parli del corpo come
di un evento in cui tutto incessantemente “accade e decade”. O, ancora, di un
“percorso dell’energia”, dalle vertebre alla zona pelvica, fatto di “pressioni
e ondulazioni”. Ed è questa intima difonia che fa uscire la tua danza dal
canone della danza contemporanea.
La
prima parte dello spettacolo è compiuta e, prima di arrivare alla seconda,
passiamo attraverso un breve intermezzo in cui vediamo una piccola tribù,
formata da donne e da bambine (tutte con al collo carcasse di animali), che
escono di scena. Sul palco rimangono solo due danzatrici che si riprendono le
fasce di carta (le maschere), lasciate prima, ed escono a loro volta immerse in
un’atmosfera formata cromaticamente da una calda luce arancione. Si tratta
forse delle tribù dei Bororo, dei Caduvei, dei Nambikwara, dei Tupi Kawahib? Di
quelle tribù, di cui parla Lévi-Strauss, costrette ad abbandonare i loro luoghi
nativi insediati ora dalla mano incurante di una cultura irrispettosa della
diversità? Se ne vanno ed escono di scena, rammaricati, come costretti a
lasciare un posto da loro amato; se ne vanno e rimangono alla vista degli
spettatori solo le due protagoniste della seconda parte dello spettacolo,
quella che vede come tematica l’iniziazione di uno Sciamano a opera di uno che
Sciamano lo è già. Questa figura è una delle più emblematiche della tribù. Allo
Sciamano sono riconosciute doti magiche, poteri in grado di curare le persone,
sia fisicamente che spiritualmente. Lo Sciamano è colui che, tramite i suoi
viaggi mentali, fa visita agli “altri mondi”, quelli Divini, per poi tornare
con le risposte ai problemi del mondo terreno; lo Sciamano è anche colui che ha
sofferto, colui che tramite il dolore è arrivato al grado di sapienza e di
saggezza più grande, ed per questo che anche i suoi iniziati devono giungere a
ricoprire questo ruolo dopo gravi sofferenze, spesso dopo gravi malattie, e
attraverso una rigida disciplina. Di questo parla lo stesso Lévi-Strauss, ma
non su “Tristi Tropici”, ma nell’altra sua pubblicazione “Antropologia
strutturale”.
Curando il suo malato, lo Sciamano
offre al suo uditorio uno spettacolo. Che spettacolo? A rischio di
generalizzare imprudentemente certe osservazioni, diremo che questo spettacolo
è sempre quello di una replica, da parte dello Sciamano, della “chiamata”,
ossia della crisi iniziale che gli ha procurato la rivelazione del suo stato.
Ma la parola spettacolo non deve trarre in inganno; lo Sciamano non si contenta
di riprodurre o di mimare certi avvenimenti; li rivive effettivamente in tutta
la loro vivacità, originalità e violenza. E siccome, al termine della seduta,
egli ritorna allo stato normale, possiamo dire, prendendo a prestito dalla
psicanalisi il termine essenziale, che egli abreagisce.
È noto che la psicanalisi chiama abreazione quel momento decisivo della cura in
cui il malato rivive intensamente la situazione iniziale che è all’origine del
suo squilibrio, prima di superarlo definitivamente. In questo senso, lo
Sciamano è un abreatore professionale. [9]
Ritornando
allo spettacolo, inizialmente notiamo le performers di profilo, non sono molto
visibili, ma immerse sempre all’interno della calda atmosfera creata dalla luce
arancione. Elsa De Fanti (lo Sciamano) comincia a dare luogo a una serie di gesti
e movimenti, a tratti composti, a tratti scattosi (straordinaria la vitalità di
questa danzatrice, anziana per l’anagrafe, ma dotata, nella realtà, di un corpo
giovane e dinamico), imitati dalla sua iniziata (Ramona Caia) –si capisce
palesemente quindi che lo “Stregone” sta impartendo lezioni al suo allievo
(parliamo al maschile, ma sappiamo che le protagoniste della scena sono donne).
Le luci cadono e ritroviamo il Maestro a terra e in preda a una rapida
gestualità, è forse caduto in trance? La possessione è un fenomeno importante
nella vita dello Sciamano, perché è tramite questa che può entrare in contatto
con il Divino. La danzatrice si rialza e compie dei veloci movimenti con le
braccia, movenze imitate a specchio dal suo iniziato, disposto davanti a lei.
Poi si rialzano, l’iniziato scompare e lo Stregone comincia a danzare passi
lenti per poi accelerarli pian piano, accompagnandoli anche con gesti delle
braccia che danno luogo a imitazioni animali,
fin quando, sulla destra, in secondo piano, non appare una sorta di
totem: una danzatrice che regge in alto una figura geometrica, un rombo: si
tratta di una visione, della visione dello Sciamano che sta facendo visita alle
Divinità. Le luci si abbassano in dissolvenza e, quando torna la luce in scena,
le due danzatrici sono sdraiate e a terra; il Maestro si rialza, l’iniziato
rimane al suolo e sembra come posseduto, come prima lo era stato lo Sciamano,
ed è proprio quest’ultimo che si avvicina allo Stregone cadetto e gli bisbiglia
qualcosa all’orecchio -è la prima volta che la comunicazione avviene tramite il
verbo. Lo Stregone continua a impartire le sue lezioni: sale sopra il suo
allievo e lo indirizza nei movimenti. I due quasi lottano, per infine
ritrovarsi in una particolare posizione: lo Stregone nella posizione di una
donna che sta per partorire e l’allievo compie un movimento a terra con il
corpo come se sia stato appena partorito dal Maestro: un nuovo Sciamano è nato!
È nato ed è in trance, sta visitando anche lui i mondi Divini, tanto è vero
che, ancora una volta, riappare il totem, la visione –stavolta al posto di un
rombo c’è un tondo, una sorta di mariddo.
Le due danzatrici uniscono le loro teste a terra, come a farci capire che
finalmente possono “viaggiare insieme”, stanno per raggiungere una dimensione
paritaria. Ma ancora il percorso dell’allievo non è terminato: si rialzano e lo
Stregone continua a impartire le sue lezioni in posizione verticale, mentre
l’iniziato si trova ancora a terra. Solo pian piano si alzerà, tramite una
serie di “dolorosi” movimenti e riuscirà a ritrovarsi nella posizione
verticale, proprio come lo Stregone, e Ramona Caia non si limita a questo, ma
si ritaglia anche una porzione di spazio scenico per un assolo, una danza, la
danza del nuovo Sciamano. Una danza frenetica, disarticolata, controllabile e
incontrollabile allo stesso tempo, in cui, nonostante le evidenti frantumazioni
corporali, la danzatrice riesce a ottenere la massima fluidità. La performer
continua con il suo bellissimo assolo, finché lo Stregone, ancora una volta,
non le sussurra qualcosa all’orecchio. Qui Ramona cade a terra, senza sensi e
stravolta: è duro il percorso per diventare Sciamani, ma sembra che lei ci sia
riuscita.
Il
finale della seconda parte dello spettacolo è contrassegnato dal ritorno in
scena della tribù di donne e bambine che l’avevano lasciata. Le due danzatrici
protagoniste sono inglobate nel gruppo sopraggiunto e qui si abbassano
nuovamente le luci e si rialzano sugli spettatori, perché è in questa parte del
teatro che si svolge la terza e ultima scena dello spettacolo.
La
protagonista stavolta è soltanto una, Dorina Meta, una danzatrice non vedente.
Si aggira per le scale della platea alla ricerca di qualcosa, con fare incerto,
“semplice”, per nulla accademico ed è lo stesso Sieni a dire:
Nella scena con Dorina, in seguito
sostituita da un’altra danzatrice non vedente, Filippa, il gesto è più
imperfetto ma, guarda caso, più sacro. Non è più realistico, non ci sono
sovrastrutture, il gesto è semplicemente più innocente, Dorina e Filippa lo
donano a noi completamente senza avere codificato una serie di passaggi per
renderlo bello secondo certi canoni. Il loro gesto è attraente per questo. Sono
totalmente concentrate in quello che fanno.[10]
È un
gesto non codificato allora quello di Dorina, che si muove come spaesata;
s’inginocchia vicino alle poltrone degli spettatori, dove, sotto, sono nascosti
degli insetti –finti ovviamente- che la performer raccoglie. Dorina è alla
ricerca della sua cultura, della sua tribù, sembra essere stata catapultata in
un mondo non suo, in una civiltà non sua. C’è poi un altro elemento importante,
il più importante, da menzionare: la danzatrice ha il viso dipinto con motivi
neri, che si rifanno a quella tradizione Bororo per cui, in occasione di certe
onoranze funebri, i danzatori si dipingono di questo colore, ponendosi sul
volto degli occhiali di paglia a montatura vuota, quegli occhiali che
garantiscono “l’invisibilità”:
Il Personaggio principale che
incarnava l’anima appariva in due differenti tenute secondo i momenti: ora
vestito di foglie verdi con in testa l’enorme acconciatura già descritta,
portando, a mo’ di strascico di corte, una pelle di giaguaro che un paggio
sosteneva dietro di lui adesso nudo e dipinto di nero, ornato unicamente da un
oggetto di paglia simile a un enorme occhiale vuoto intorno agli occhi. Questo
particolare è specialmente interessante per l’analogo motivo che si ritrova in
Tlaloc, divinità della pioggia dell’Antico Messico. I pueblo dell’Arizona e del
Nuovo Messico posseggono probabilmente la chiave dell’enigma; presso di loro,
le anime dei morti si trasformano in divinità della pioggia; ed essi hanno
inoltre credenze relative a oggetti magici che proteggono gli occhi e
permettono ai loro possessori di rendersi invisibili.[11]
Dorina
è allora visibile per tutti noi, ma per lei tutti noi siamo invisibili, la
donna e la sua cecità sono così trasformate da Sieni nella danzatrice che si è
messa i Divini/magici occhiali vuoti di paglia e si è resa così invisibile. Lei
avanza, cammina, convinta che nessuno possa vederla, è indecisa, perché è stata
allontanata dalla sua casa, dalla sua tribù, dalla sua famiglia. Solo in un
secondo momento giunge sul palcoscenico, dove finalmente sembra ottenere
sicurezza in sé stessa (forse ha ritrovato il suo ambiente congeniale?) e dove
danza sciolta con Elsa De Fanti, sopraggiunta in scena. Ma poi, subito dopo,
rimane nuovamente da sola, fino a quando non arriva un grande uccello –è
un’attrice travestita- che si relaziona con Dorina. Le due instaurano un legame
di affetto, di vicinanza fisica e spirituale, vicinanza che sarà ancora più
forte quando gli uccelli diverranno due. Lo spettacolo termina proprio così,
con l’immagine che accentua il positivo rapporto tra uomo e animale, un
rapporto che, purtroppo, la nostra società ha perduto e, commettendo questo
errore, se ne commette un altro ancora più grave, quello di toglierci una parte
di umanità, proprio perché l’animale è inscindibile dall’essere umano, non solo
a livello fisico, ma anche spirituale, dove si è andata a perdere anche la
sacralità della bestia, riducendola a essere inferiore all’uomo, cosa che non
sarebbe mai dovuta accadere. Sembra questo il tema centrale di “Tristi Tropici”
di Lévi-Strauss, se nel finale del suo libro, lo stesso antropologo vede il suo
gatto come un amico con cui poter scambiare cenni di comprensione:
Come l’individuo non è solo nel gruppo
e ogni società non è sola fra le altre, così l’uomo non è solo nell’universo.
Quando l’arcobaleno delle culture umane si sarà inabissato nel vuoto scavato
dal nostro furore; finché noi ci saremo ed esisterà un mondo –questo tenue arco
che ci lega all’inaccessibile resisterà: e mostrerà la via inversa a quella
della nostra schiavitù, la cui contemplazione, non potendola percorrere, procura
all’uomo l’unico bene che sappia meritare: sospendere il cammino; trattenere
l’impulso che lo costringe a chiudere una dopo l’altra le fessure aperte nel
muro della necessità e a compiere la sua opera nello stesso tempo che chiude la
sua prigione; questo bene che tutte le società agognano, qualunque siano le
loro credenze, il loro regime politico e il loro livello di civiltà; in cui
esse pongono i loro piaceri e i loro ozi, il loro riposo e la loro libertà;
possibilità, vitale per la vita, di distaccarsi e che consiste –addio selvaggi!
Addio selvaggi!- durante i brevi intervalli in cui la nostra specie sopporta
d’interrompere il suo lavoro da alveare, nell’afferrare l’essenza di quello che
essa fu e continua a essere, al di qua del pensiero e al di là della società;
nella contemplazione di un minerale più bello di tutte le nostre opere; nel
profumo, più sapiente dei nostri libri, respirato nel cavo di un giglio; o
nella strizzatina d’occhio, carica di pazienza, di serenità e di perdono
reciproco che un’intesa volontaria permette a volte di scambiare con un gatto.[12]
Uno
spettacolo completamente al femminile quello di Sieni (d’altra parte la Natura
non è donna?) in cui le protagoniste della scena sono tutte danzatrici che
fanno del loro corpo l’elemento fondamentale del palcoscenico; un corpo
inserito all’interno di atmosfere create con suggestivi giochi di luce, che
sembrano come sospendere la dimensione spazio-temporale. Dove siamo? In che
epoca? Non possiamo rispondere… si tratta di un ricordo, di un’epoca che forse
c’è stata, forse no, di sicuro di un’epoca che si è persa, di un’epoca sospesa
all’interno del “silenzio della foresta”. Era un’epoca in cui gli uomini
veneravano la Natura e l’Animale e in cui vigeva un pacifico equilibrio
armonizzante. Scrive Vito Di Bernardi, in un saggio pubblicato sul programma di
sala di “Tristi Tropici”, di cui non tarderò a parlare:
Il pensiero selvaggio infatti non è
“il pensiero dei selvaggi” ma è qualcosa che ci appartiene, è una modalità del
pensiero dell’uomo. Più che primitivo esso è primario: è il pensiero delle
origini, una scienza del concreto che utilizza per significare, costruire,
modificare il mondo, una lingua di segni incarnata nella realtà fisica,
naturale. Il pensiero selvaggio è un pensiero-corpo molto vicino a quel confine
tra naturale e cultura, tra animale e umano, tra sensibile e intellegibile, il
cui passaggio ha segnato l’inizio della storia dell’uomo.[13]
Non sempre è facile
trovare i riferimenti dello spettacolo sulla pubblicazione dell’antropologo francese,
ma per questo può essere di aiuto anche lo stesso programma di sala, accennato
poc’anzi, un programma completo in cui, in diciotto punti, vengono evidenziate
le tematiche della messa in scena e i collegamenti con Lévi-Strauss, e credo
proprio che questo studio possa essere completato con uno di questi punti, il
quarto, che dovrebbe farci riflettere: “In
queste tribù visitate da Lévi-Strauss è sedimentato il seme dell’uomo
proiettato verso la trascrizione di un sistema sociale adatto a viverci nella grandezza
indefinibile degli inizi, nell’infanzia dei popoli, e che pone noi occidentali
come responsabili della loro distruzione”[14].
Stefano Duranti Poccetti
Bibliografia generale:
Claude Lévi-Strauss, Antropologia strutturale,
Milano, Il Saggiatore, 1978
Claude Lévi-Strauss, Tristi Tropici, Milano, Il
Saggiatore, 2008
AA.VV. Tristi Tropici, Artout Maschietto Editore,
Firenze, 2010
Vito Di Bernardi, Virgilio Sieni, Palermo, L’Epos,
2011
[1]
Vito Di Bernardi, Virgilio Sieni, Palermo, L’Epos, 2011, p.48
[2]
Claude Lévi-Strauss, Tristi Tropici, Milano, Il Saggiatore, 2008, p.31
[3]
Vito Di Bernardi, Virgilio Sieni, Palermo, L’Epos, 2011,p. 27
[4]
Claude Lévi-Strauss, Tristi Tropici, Milano, Il Saggiatore, 2008, p. 160
[5]
ibidem, p.164
[6]
ibidem, p.145
[7]
Vito Di Bernardi, Virgilio Sieni, Palermo, L’Epos, 2011, p.17
[8]
Claude Lévi-Strauss, Tristi Tropici, Milano, Il Saggiatore, 2008, p.201
[9]
Claude Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, Milano, Il Saggiatore,
1978, p.204
[10]
Vito Di Bernardi, Virgilio Sieni, Palermo, L’Epos, 2011, p.50
[11]
Claude Lévi-Strauss, Tristi Tropici, Milano, Il Saggiatore, 2008, p.200
[12]
Ibidem, 357
[13]
AA.VV. Tristi Tropici, Artout Maschietto Editore, Firenze, 2010, p.11
[14]
AA.VV. Tristi Tropici, Artout Maschietto Editore, Firenze, 2010, p.26
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