FERRO 3 –LA CASA VUOTA
COREA DEL SUD 2004 88’ COLORE
(bin-jip 3 iron)
REGIA: KIM
KI-DUK
INTERPRETI:
JAE-HEE, LEE SEOUNG-YEONG, MOO JOO JIN, CHOI SEONG-HO
Edizione DVD: SI’, distribuito da DOLMEN HOME VIDEO
Tae-Suk (Hee),
ragazzo misterioso e taciturno, trascorre le giornate gironzolando per la città
a bordo della propria moto in cerca di appartamenti o case disabitati in cui
introdursi per stabilirvisi temporaneamente (almeno fino al ritorno dei
legittimi proprietari); una volta dentro, Tae-Suk mangia, si lava, dorme, ma si
dedica pure alla cura della casa, pulendo, facendo il bucato ed effettuando
piccole riparazioni domestiche grazie alla notevole manualità di cui è dotato.
Durante la “perlustrazione” di una lussuosa villa (la stessa che vediamo all’inizio
del film), incontra Sun-Hwa, giovane e
bellissima sposa infelice che reca in volto i segni inconfondibili dei
maltrattamenti del marito, squallido e violento uomo d’affari di mezza età.
L’intesa tra i due è istantanea, e Sun-Hwa decide così di seguire Tae-Suk nel
suo particolarissimo percorso, non prima che questi abbia regolato a dovere i
conti col marito manesco di lei ( in un modo decisamente originale). Di casa in
casa, di fuga in fuga, tra i due sboccia pian piano l’amore, ma il gioco si
interrompe bruscamente quando la polizia riesce ad arrestarli nell’appartamento
di un anziano morto in casa. Mentre Sun-Hwa riguadagna subito la libertà grazie
all’intervento dell’influente marito, per Tae-Suk si aprono le porte del
carcere, tuttavia non c’è forza che possa trattenere a lungo uno spirito
libero…
Il ferro 3 cui fa
riferimento il titolo, come spiega lo stesso Kim -regista autodidatta privo di
cultura cinematografica e con un passato da pittore, approdato alla settima
arte quasi per caso, imparando il cinema semplicemente “facendolo” (da qui la
grande libertà stilistica e l’originalità che caratterizzano le sue opere)- è
la mazza da golf meno utilizzata nel corso di una partita; immaginando tale
mazza all’interno di una costosa sacca utilizzata anch’essa raramente, ecco che
otteniamo un’efficace metafora della solitudine umana, condizione percepita da
tutti coloro che, per i motivi più vari, si ritrovano esclusi, emarginati,
tagliati fuori dalla società, ed in qualche modo quindi “inutilizzati”, inerti.
Ma il golf è qui
anche leitmotiv, espediente narrativo ricorrente e polisemico, dato che mazza
(probabilmente, anche se non ci è dato saperlo con certezza, proprio un “ferro
3”) e palline vengono utilizzate ripetutamente dai personaggi del film, assumendo valenze simboliche e scopi di volta in volta
differenti: in mano al manesco e possessivo marito di Sun-Hwa, la mazza esprime
tutta l’arroganza e la volgarità del potere cui prelude la ricchezza; impugnata
da Tae-Suk diviene strumento di liberazione nonché speranza in un cambiamento
(soprattutto per l’infelice Sun-Hwa), e, ancora, mezzo attraverso il quale i
due innamorati comunicano –in un’enigmatica
scena, che si ripropone poi una seconda volta poco più avanti nel film con una
chiusura però decisamente più traumatica (Tae-Suk finisce per colpire
un’incolpevole passante ferendola gravemente, mostrando tutta la propria
fallibilità e fragilità di essere umano e ribaltando quell’ impressione di
perfetta padronanza di sé e della realtà che il film ci aveva trasmesso fino a
quel momento), Tae-Suk fissa la pallina ad una corda legata ad un albero e
colpisce a ripetizione ma Sun-Hwa ad un certo punto lo ferma piazzandoglisi
davanti; lui sposta la pallina per cercare di evitare la ragazza che continua
invece a seguirlo impedendogli di giocare, finché il nostro si vede costretto a
rinunciare…che la ragazza riveda in Tae-Suk che gioca a golf il marito dal
quale è appena fuggito? Oppure, che Tae-Suk senta il bisogno di imitarlo,
magari per esorcizzare la propria frustrazione ed insoddisfazione di fondo? -;
infine, la mazza è la non convenzionale arma utilizzata per consumare vendette
(ne vedremo ben 3), ambivalente come la volontà dell’uomo che può mutare dal
bene al male con gran disinvoltura.
Altra immagine
adattissima a rappresentare la solitudine umana è quella di una casa vuota (cui
allude il titolo originale del film), vuota come le abitazioni attraversate da
Tae-Suk. Ricordando ancora le parole del regista, ciascuno di noi ospita al
proprio interno un’immensa casa vuota chiusa a chiave –la solitudine, ingrediente
ormai onnipresente nell’odierna società in cui viviamo-; ciò che desideriamo è
solo di incontrare qualcuno in grado di forzare la nostra serratura e liberarci
così da questo sentimento opprimente. Il protagonista del film, solo a propria
volta, è uno “scassinatore di solitudini” di professione mosso dal bisogno di
trovare una casa vuota che, una volta aperta, gli permetta di aprire finalmente
anche la propria. E’ proprio quello che succede tra Tae-Suk e Sun-Hwa: il
magico incontro di due esigenze perfettamente complementari porta due persone a
sconfiggere la propria solitudine ed a scoprire il vero amore, un amore così
forte da annullare persino le barriere spazio-temporali imposte dalla realtà.
Rinunciando quasi
completamente ai dialoghi (di Tae-Suk non sentiremo mai la voce, mentre per
ascoltare quella di Sun-Hwa –urlo al
telefono a parte- occorrerà attendere le pochissime parole pronunciate verso la
fine del film), lavorando di sottrazione (trama ridotta all’osso, piena di
momenti di sospensione e “microeventi”, dove ogni singolo fotogramma è comunque
imprescindibile) e con un budget ridottissimo (solo 16 giorni di riprese!), Kim
gira il suo film più bello e importante, regalandoci una favola metropolitana
poetica ed emozionante, di cristallina purezza, sospesa in fragile equilibrio
tra la realtà quotidiana della prima parte e il surrealismo fiabesco della
seconda, dove ogni logica narrativa salta per lasciar posto alla meraviglia e
all’immaginazione del sogno. Misura, trasparenza e grazia sono le parole chiave
di questo film che sa essere zucchero e
fiele allo stesso tempo, deliziosa commedia d’amore e impietosa ricognizione
sociologica dell’attuale società sudcoreana (ma non solo di essa: sarebbe un grave
errore non rispecchiarsi in questo breve spaccato d’umanità!) e dei grandi mali
che l’affliggono; a tal proposito, quel che ne esce è il mesto ritratto di un
paese nel quale sembra essere saltato qualunque punto di riferimento morale e
familiare (una volta “rianimate” dal ritorno dei legittimi proprietari, le
varie case lasciate da Tae-Suk si rivelano in realtà più solitarie di prima, mute spettatrici di
famiglie sull’orlo dello sfascio o, nella migliore delle ipotesi, tenute
insieme solo per inerzia) e dove arrivismo ed egoismo sembrano prevalere quali
principi guida delle azioni delle persone; una società di alienati dove la
violenza (qui pure assai più contenuta ed astratta rispetto ai livelli usuali
di Kim) è un abituale e normale modo di interazione tra gli individui in grado
di sopperire, paradossalmente, all’ormai cronica incapacità di comunicare delle
persone (basti pensare al modo in cui l’ispettore cerca di ottenere la
confessione di Tae-Suk, una scena che sembra uscire direttamente dal primo film
del regista giapponese Takeshi Kitano, “VIOLENT COP”, datato 1989).
In un mondo così,
Tae-Suk stima evidentemente di non potersi ritagliare uno spazio. Da qui la
scelta di rinunciare ad un’esistenza normale per vivere una vita parallela, una
vita da estraneo, da non-allineato, da emarginato, da vagabondo, al di fuori
delle regole accettate supinamente dagli Altri. Eppure, non è stato sempre
così, c’è stato un tempo in cui anche Tae-Suk ha vissuto ”nel mondo” (“SEI
ANCHE LAUREATO”, gli dice con rammarico l’ispettore, non trovando una
spiegazione all’operato del protagonista), almeno fin quando non si è reso
conto della propria incompatibilità di
fondo col concetto di ” normalità” . Va da sé che una scelta radicale di tale
portata comporta un inevitabile corollario di sofferenza e solitudine che il
nostro cerca di mitigare fingendo di vivere la vita degli altri, forse nello
slancio di un impossibile, data la propria irriducibilità, desiderio di
ricongiungersi col Mondo ( non a caso, prima di lasciare una casa Tae-Suk si
scatta sempre una foto ricordo nell’angolo più rappresentativo dell’abitazione
stessa, magari dove si trova il ritratto dei proprietari), nell’attesa
dell’incontro decisivo che lo guarisca dal solipsismo che lo affligge. A
tradire la sofferenza e l’insoddisfazione di fondo di Tae-Suk da un lato e un
forte anelito di pervenire ad una sorta di “unio mystica” con l’universo
dall’altro, ci pensa il suo agire, così costantemente improntato alla ricerca
dell’ordine e della stabilità (la riparazione degli oggetti rotti,
l’impeccabile funerale del vecchio ma anche la geometrica perfezione dei suoi
movimenti, della quale fa le spese il ”povero” secondino del carcere, bersaglio
degli scherzi ogni volta più sofisticati
del nostro) ed in quanto tale così contraddittorio rispetto alla sua vita
sociale di rottura. Solo l’incontro con Sun-Hwa porta pace nell’anima dello
scassinatore Tae-Suk, un’anima prima di tale evento necessariamente monca,
incompleta, dimezzata poiché incapace di ospitare l’amore dentro di sé. E il
fiorire di questo sentimento nuovo, sconosciuto, completa il processo di
trasformazione di Tae-Suk che da individuo diviene Presenza (sovrannaturale?),
ed in quanto tale si pone al di là dello spazio-tempo ed al di sopra di
qualunque logica terrena, sciolto da ogni vincolo e finalmente libero di amare
(sempre a modo suo, dato che anche Sun-Hwa fa parte dell’universo alternativo
di Tae-Suk, ed in questo il regista sembra volerci suggerire che in questo
mondo c’è spazio per una vita “altra”). Tra tanto spendore (anche formale: Kim
sa girare con leggiadria e delicatezza magistrali, trasformando la povertà di mezzi a
disposizione in un’occasione per dare il massimo avendo a disposizione il
minimo),che Tae-Suk sia in realtà morto e tutto ciò che vediamo alla fine sia
solo frutto dell’immaginazione di Sun-Hwa oppure no, non ha importanza e, almeno per una volta, alle richieste dei
razionalisti ad oltranza che pretendono di ottenere spiegazioni per tutto, possiamo
rispondere con un convinto “FRANCAMENTE ME NE INFISCHIO!”.
Leone
d’argento-premio speciale della giuria a Venezia 2004 , il film, oltre che su
singolo DVD, è reperibile anche nell’ottimo cofanetto “COLLEZIONE KIM KI-DUK”,
insieme ad altri tre film del maestro, il capolavoro “LA SAMARITANA” (ancora 2004, decisamente l’anno di grazia di
Kim) e gli ottimi “PRIMAVERA ESTATE
AUTUNNO INVERNO E…ANCORA PRIMAVERA” (2003) e “L’ARCO” (2005). Come sempre,
raccomando vivamente di scegliere la versione originale sottotitolata.
Francesco Vignaroli
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