28 settembre, 2012

Che cos'è il teatro iraniano? Cosa significa scrivere teatro? Che cosa significa teatro italiano in Iran? Tutto questo ce lo spiega il giovane drammaturgo Arash Abbasi, raccontandoci anche di sé...



Arash Abbasi è un giovane drammaturgo iraniano che abita ora in Italia. Nel suo paese era famoso, ma ora deve ricostruirsi una carriera. Arash si racconta al Corriere, raccontando la sua vita e parlando anche del teatro iraniano.


Ciao Arash, grazie per la disponibilità dimostrata per fare questa intervista. Puoi parlarmi di te? Raccontami in breve la tua vita e di come e dove ti sei formato come drammaturgo…



Arash Abbasi
Sono nato nel 1978 a Malayer, nella regione di Hamadan. Conobbi il teatro durante la scuola, precisamente nel 1988-89, quando per la prima volta andai a guardare uno spettacolo. In realtà, fino a quel momento avevo visto solo gli spettacoli degli allievi della scuola e non avevo mai avuto l’opportunità di comprare un biglietto per guardare un vero spettacolo assieme agli altri spettatori. Quello spettacolo era di genere comico, e in esso  recitava un attore chiamato “Amin Baravand”, che mi aveva interessato molto. Pensavo che fosse l’uomo più felice del mondo perché, non solo faceva l’attore, ma lo faceva anche benissimo. Tanti anni più tardi, proprio quell’attore recitò nei miei due spettacoli e di questo fui molto contento, ma purtroppo, col passare degli anni, si è allontanato dal teatro. Tuttavia, negli stessi anni, sono entrato rapidamente a far parte del teatro stabile della mia città. Così ogni volta che necessitava di un attore adolescente veniva a trovarmi. In quella piccola area ho provato a fare il regista prestissimo e per fortuna! Quando avevo sedici anni, feci il mio primo spettacolo nella sala principale della mia città e la mia opera fu accettata al “Festival del Teatro delle Regioni”, che a quel tempo era uno dei più prestigiosi festival del teatro in Iran. Così continuai con il teatro e man mano ebbi una presenza costante in tutti gli spettacoli che si svolgevano a Malayer, fino a quando mi sono immatricolato all’università e mi sono trasferito  a Teheran, la capitale dell’Iran, in cui avviene la forma più professionale del Teatro iraniano, per frequentare in corso di laurea in recitazione teatrale. Dopo poco tempo, mi sono trovato molto solo e disperato a causa della grandezza di una metropoli come Teheran. Non mi sentivo in sintonia con i compagni dell’università. Avevo sperimentato un altro genere di teatro e, avendo alle spalle una carriera di otto anni, pensavo di poter essere attivo anche all’università, cosa che non è avvenuta per qualche motivo. Ti ho raccontato queste cose per farti sapere come sono diventato drammaturgo. Non avevo nessuna relazione con gli altri all’università, mi sedevo in silenzio nella classe e frequentavo solo i corsi. Per questo, oggi, nessuno dei miei compagni si ricorda che un giorno anche io sono stato uno dei loro compagni di classe. In quell’ambiente ho pensato a come potessi lavorare per teatro… a quel tempo credevo che non mi servisse l’apporto di nessuno. Ho pensato di fare il regista e recitare in uno spettacolo mono-attore, così non avrei avuto bisogno di collaborare con nessuno. In quel momento, abitavo da solo in una piccolissima camera, un po’ più grande delle dimensioni di un letto, in un dormitorio degli studenti. Alla fine ho deciso di scrivere un dramma facendo il regista e recitandolo. Non è stato facile per me intraprendere questa cosa, ma finalmente sono riuscito a trovare un metodo che continuo ad utilizzare anche oggi: scrivere su cose che mi coinvolgono, oppure riportare vicende di cui conosco i protagonisti del mondo reale. Prima di aver potuto prendere una nuova camera nel dormitorio con l’aiuto della mia cugina Fereshte (in persiano vuol dire angelo), che era la responsabile dei dormitori degli studenti in un’altra università -e veramente mi ha salvato come un vero e proprio angelo-, per un po’ di tempo ho cercato una piccola ed economica camera in affitto, ma non ho potuto trovare nulla con i pochi soldi che avevo. Sono stati giorni brutti, terribili, amari e dolorosi, ma, secondo me, la miglior fonte d’ispirazione letteraria. La mia camera si trovava al settimo piano di un palazzo grande e vecchio. Un po’ più lontano dal dormitorio c’era una grande casa in cui abitava da sola una signora anziana ed io potevo vederla dalla finestra della mia camera pensando continuamente: perché un’anziana doveva vivere da sola in una casa così grande ed io, invece, dovevo subire la miseria? Così ho trovato il mio primo tema per scrivere un dramma intitolato “Un cesto di parolacce per la Signora Shamsi!” (in persiano: Yek sabad fohsh baraye Shamsi khanum). Si trattava di un dramma sulla vita di uno studente proveniente dalla provincia che arriva nella capitale e, dopo tanti problemi, riesce a trovare una piccola camera in casa di un’anziana che si chiama Signora Shamsi, ma alla fine arriva al punto in cui uccide l’anziana. Alla fine è una persona ricercata che ripercorre il passato. Per scrivere questo dramma, ho dato anche un’occhiata a “Delitto e castigo”, il romanzo dello scrittore russo Fedor Dostoevskij. È stato il mio primo dramma serio che all’epoca è stato interpretato in diversi festival, molte volte. Anche oggi l’hanno interpretato in alcune delle città iraniane. Lo scrivere questo dramma ha cambiato il corso della mia vita. Anche la mia seconda avventura è molto interessante. L’orientamento universitario da me preferito era la recitazione. Dovevamo scegliere uno di questi tre orientamenti: recitazione, scenografia o drammaturgia. Sapevo di dover scegliere la recitazione, ma soltanto per un banale motivo sono stato costretto a scegliere drammaturgia: la recitazione era più costosa rispetto alla drammaturgia! Così ho scelto questa ultima. Mi sentivo come se tutti i miei sogni fossero rovinati. Solo per  mancanza di denaro dovevo studiare una disciplina che non mi piaceva. Facevo l’attore, avevo già recitato almeno dieci spettacoli nella mia città. Ero andato a Teheran con passione per la recitazione, ma ora non potevo frequentare i suoi corsi, così caddi in depressione ed ebbi bisogno del dottore, prendendo farmaci antidepressivi. A volte, dopo le lezioni, andavo direttamente al terminal dei bus extraurbani e ritornavo nella mia città arrivando nella sua sala teatrale. Per me, quella sala situata in Via 15 Khordad a Malayer, è sempre stata il posto più sicuro al mondo. Si sono formati tutti i miei sogni sotto il suo tetto. Stavo decidendo di mollare l’università e ritornare nella mia città, ma in quei giorni mi ha salvato “Un cesto di parolacce per la Signora Shamsi”. Improvvisamente fu accettata per qualche festival e ottenne qualche premio letterario, incoraggiandomi a scrivere sempre di più. Con rinnovata passione ho scritto il mio secondo dramma e quest’ultimo ha ottenuto un successo più grande dell’altro, così che dopo qualche tempo sono stato ammesso al “Festival internazionale di Teatro Fajr”- il più prestigioso festival di teatro dell’Iran, trovando finalmente il corso della mia vita professionale, concentrato sullo scrivere fino ad oggi, mantenendo però anche il sogno della recitazione, e in realtà il mio ultimo dramma, vale a dire “Morto lo scrittore” (tradotto anche in italiano, ma non ancora pubblicato in Italia) parla proprio di questo sogno.

Completissima la tua risposta e ti ringrazio ancora per la tua disponibilità. Puoi dirmi ora qualche titolo dei tuoi drammi?

Purtroppo, in questi anni ho scritto troppo. Ora penso che forse sarebbe stato meglio scrivere meno ma con più attenzione. Da qui in poi cercherò di farlo. Tuttavia, ecco alcuni dei miei drammi:
Un cesto di parlolacce per la Signora Shamsi”, “Al chilometro 50”, “Pulp Fiction”, “il Seminterrato”, “Vietato l'ingresso alle donne”, “La Lobby”, “Il Paterno”, “Vietato l’ingresso agli uomini”, “L’Estraneo”, “La Signora”, “Il sole sorge a Milano”, “Passare in camera chiusa”, “Il vento che scrive”, “Il Tornante”, “Tutto sul signor F”, “Prova a prendermi” ... Finora sono sati assegnati circa 30 premi per le mie opere, tra cui il premio dei critici mondiali del Festival internazionale di Teatro Fajr, il premio della Festa di letteratura drammatica dell’Iran -per ben due volte-, il premio annuale del libro in tema di guerra, la Medaglia della radio statale dell’Iran. Questi  sono solo i premi più importanti e inoltre sono state pubblicate una decina dei miei drammi in sei libri.

Come definiresti il teatro che scrivi?

All’inizio mi è piaciuto il realismo. Mi piace molto la narrazione. Quando vado a teatro, voglio che sentano le mie orecchie più che vedano i miei occhi. Il raccontare e l’ascoltare storie sono due cose innate per noi iraniani. Abbiamo una letteratura veramente ricca. Ma se volessi lavorare in Italia dovrei fare al contrario di questo, in altre parole,  dovrei concentrarmi più sull’immagine che sul dialogo.

Chi sono invece gli scrittori e i drammaturghi che ti hanno più influenzato?

Tra i drammaturghi non iraniani Arthur Miller e tra quelli iraniani Mahmoud Ostad Mohammad.

Qual è il dramma che ti è rimasto più nel cuore?

Se devo menzionare una sola opera che mi ha influenzato incredibilmente devo dire il dramma “L’eredità iraniana” scritto da Akbar Radi, ma ci sono altre opere che mi sono piaciute molto come “L’ultimo gioco”, scritto da Mahmoud Ostad Mohammad; “L’inverno 66” e “La danza di carte strappate” scritti da Mohammad Yaghubi; “Reza motociclista” (Reza Motori), scritto da Mohammad Charmshir; infine “In una famiglia iraniana”, scritto da Mohsen Yalfani.

Purtroppo, a noi occidentali, non è molto conosciuta la cultura iraniana, puoi parlarmi un po’ del teatro iraniano? L’Iran è un paese ricco di teatro? È più facile vivere di teatro in Iran o in Italia?

In realtà, il teatro moderno dell’Iran oggi è un bene importato e tanti anni fa è entrato dall’occidente  con le traduzioni dei drammi di Molière e degli altri. Ma l’Iran possiede diversi generi teatrali come “Ta’zieh”, (un particolare genere teatrale religioso in cui predominano musica e canto), che è il più importante genere teatrale iraniano. O “Siah bazi” e “Takht-e- hozi”, che sono molto simili alla Commedia dell’Arte italiana. Oggi, però, questi generi si vedono poco nella scena del teatro. La maggior parte del teatro iraniano è dominato dal teatro sperimentale e dall’avanguardia, quindi un giorno dopo l’altro il corpo del teatro realista in Iran si sta riducendo. Nella maggior parte dei festival principali del mio paese, la miglior chance è per chi si muove verso le opere sperimentali ed è evidente che ci allontaniamo man mano dal teatro realista in questo modo. Ma come risposta alla tua domanda, se è facile vivere di teatro in Iran, devo dire: no, assolutamente no. Nessuno del teatro iraniano riesce a guadagnare sufficientemente per vivere una semplice vita con le esigenze primarie . Forse ci saranno solo tre o quattro artisti che guadagnano bene con il teatro in tutto il mio paese. Anche loro, però, ogni tanto sono costretti a recitare nella televisione o nei film. C’è una chiara differenza tra il salario di teatro e quello dei due questi ultimi. Quindi, indubbiamente, è più facile vivere di teatro in Italia, perché qui conosco persone che fanno solo drammaturgia,  regia o recitazione teatrale e hanno uno stipendio mensile per il loro lavoro. Non saprei dire quando questo avverrà in Iran.

Ci sono molte differenze secondo te tra il teatro iraniano e quello occidentale? Quali sono queste differenze?

Il teatro iraniano è fortemente dipendente dal governo. Le sale sono del governo e il governo paga i costi di uno spettacolo. Anche i teatri privati dipendono ancora dal governo. Insomma, posso dire che non c’è un vero e proprio teatro privato in Iran, perché, anche se un gruppo teatrale possiede la propria sala e non utilizza il budget governativo, un organo governativo dovrebbe comunque rilasciare la certificazione di idoneità  per lo spettacolo. Qui, in Italia, il governo supporta il teatro e, ad esempio, offre un finanziamento annuale ad un gruppo teatrale per svolgere qualche programma come spettacolo, workshop, festival... ma in Iran il governo supporta ogni spettacolo ed assegna singolarmente un budget per ciascuno spettacolo. Secondo me, la differenza più importante tra il teatro iraniano e quello occidentale è che in Iran non è distinguibile il confine tra il teatro professionale e quello amatoriale. È possibile che un grande artista di teatro con cinquanta anni di carriera faccia la regia di uno spettacolo nella sala più importante del paese e poi anche uno studente di teatro faccia la regia del suo spettacolo nella stessa sala solo per un normale festival. Non c’è niente da sognare nel teatro iraniano. Fare teatro è difficile, ma con un po’ di pazienza e naturalmente con tenacia si può ottenere tutto quello che sembra un sogno per gli altri. Non penso che un regista dell’età di 25-26 anni, che ha già sperimentato il teatro in tutte le sale importanti dell’Iran, possa trovarsi ancora ad avere un sogno da realizzare e che si accontenti di raggiungerlo all’età di 50 anni. Secondo me non ci sarà niente di eccitante per lui, almeno in Iran. Una delle più grandi e più equipaggiate sale in Iran si chiama “Talar Vahdat”, con stile architettonico occidentale, che tanti anni fa è stata costruita per l’opera, ma in cui per ora si svolgono solo gli spettacoli di prosa. Una volta, i più famosi artisti teatrali iraniani svolgevano i loro spettacoli in questa sala, ma oggi, anche alcune persone di cui non si è mai sentito il nome hanno potuto svolgere gli spettacoli con gli alti finanziamenti governativi, solo perché un organo governativo li ha sopportati. Per questo, è molto difficile giudicare il teatro di tale paese, ma devo dire che tuttavia il teatro iraniano sta  facendo un passo in avanti. Ogni anno vengono proposte brillanti opere iraniane, sia in Iran che nei festival esteri. Naturalmente non saprei se avere un teatro così giovane sia conveniente o sconveniente, ma la maggior parte degli scrittori, registi e anche attori del teatro iraniano sono giovani. C’è anche un’altra differenza nel teatro iraniano: in tale teatro sono molto ingenti due gruppi di artisti, quelli che sono morti e quelli che sono isolati e non lavorano più. A causa di mancanza dello spazio sufficiente, quelli che si sforzano di lavorare e restare nel teatro sono conosciuti come persone odiate, e nessuno si chiede: “Perché io non posso lavorare?”. Tutti, invece, si chiedono “Perché gli altri possono lavorare?”. Questo è terribile. Dico un esempio: nel teatro iraniano c’è un drammaturgo e regista molto prezioso che si chiama “Mohammad Rahmanian”. Fino a poco tempo tutte le sue opere sono state eccellenti e sempre ha dato qualcosa di nuovo al teatro, ma ha avuto problemi con i suoi lavori degli ultimi anni, che non sono stati messi in scena, e quindi da qualche anno si è allontanato dall’ambiente. Finchè continuava a lavorare, alcuni lo accusavano di lavorare troppo protestando che vi fossero altri drammaturghi e registi. Ora che non lavora più, continuamente i media scrivono articoli in cui si dice che manca molto e che la sua assenza fa male. Purtroppo, questa è la caratteristica del nostro teatro. La presenza dell’eroe nel nostro teatro non è per il suo atto eroico, ma è per il suo isolamento e per non lavorare.  Per questo, di solito gli omaggi sono in memoria degli artisti teatrali che sono morti e nelle feste o ceremonie si ringraziano le persone che per anni non hanno voluto o non hanno potuto lavorare. Naturalmente non nego le difficoltà di fare teatro in Iran.

I tuoi drammi hanno riscosso più successo nel tuo Paese o in Italia?

La mia situazione attuale in Italia è proprio come quindici anni fa, quando mi sono trasferito dalla mia città a Teheran. Anche qui, nessuno mi conosce e devo cominciare da zero. A differenza di quegli anni, in cui sono caduto per terra tante volte e mi sono alzato ripetutamente, questa volta, all’inizio di trentacinque anni di età, non mi aspetto di subire una nuova sconfitta, ma so che avrò giorni difficili. Un dramma tradotto in italiano e qualche amico nel teatro italiano sono le uniche cose che ho per ora che potrebbero aiutarmi.

Tu Arash sei anche un regista, puoi parlarmi dei tuoi lavori di regia?

La regia non è il mio interesse principale. Se nel mio paese fosse esistito uno sguardo professionale alla drammaturgia, non sarei mai andato a fare la regia. Almeno da quando i miei drammi sono stati messi in scena da altri registi non c’è stata più nessuna ragione perché volessi fare regia. Comunque quando faccio il regista sono fedele fortemente ai miei testi, perché durante lo scrivere  faccio la regia nella mia mente. Per questo motivo, forse non riesco ad aggiungere qualche novità allo spettacolo. In realtà, secondo me, la gioia di scrivere  è molteplice quando il regista trova i nuovi aspetti dentro il tuo dramma. Tuttavia, mi piacciono molto alcuni dei miei spettacoli e sono molto contento di fare la regia me stesso, ad esempio, per il dramma “Tutto sul Signor F”.

Come vedi l’Italia per svolgere il mestiere di drammaturgo?

Non saprei. È troppo presto per giudicarlo. Prima di tutto, dovrei potere scrivere in italiano e poi mettere in scena i miei drammi e poi potrei commentare la situazione di questo mestiere in Italia.

È apprezzata la cultura del teatro italiano nel tuo Paese?

Secondo me, nell’Iran non è conosciuto il teatro di nessun paese come quello italiano. Di solito, partecipano almeno due o tre spettacoli italiani in tutti i festival di teatro dell’Iran. Finora il teatro Koreja di Lecce ha svolto tanti spettacoli in Iran e in questo momento che stiamo parlando, si stanno svolgendo due spettacoli italiani a Teheran.

Progetti futuri?

La mia attività più importante per ora è continuare i miei studi. Attualmente sono studente del Corso di Laurea Magistrale in Discipline dello spettacolo dal vivo dell'Università di Bologna. Non è troppo facile studiare nell’università più antica d'Europa e richiede un certo tempo. Ma dal punto di vista professionale il mio programma già definito è fare la regia del mio nuovo dramma “Morto lo scrittore”. Lo spettacolo sarà in scena per 30 giorni nel gennaio 2013. Utilizzo due superstar del cinema iraniano in questo spettacolo. Nel frattempo, sto facendo i preparativi per cominciare le prove di uno spettacolo intitolato “Il Fluire del Sangue nelle Vene Secche”,  con attori italiani. Si tratta di uno spettacolo derivato da una delle storie antiche iraniane e che fa uso di tutti i generi teatrali iraniani.

Curata da Stefano Duranti Poccetti

26 settembre, 2012

“Virgilio Sieni”. Vito Di Bernardi dialoga con il celebre coreografo fiorentino



Nel lavoro di danzatore, come lo vivo io, questo sentirsi in continua risonanza con qualcosa che va e ritorna è l’esperienza fondamentale dell’essere in scena. Sia mantenendo ferrea una struttura da portare avanti sia, viceversa, lavorando con una struttura fondata sulla variazione o addirittura sull’improvvisazione, l’elemento dell’atomo della risonanza per me è sempre vivo”.
“Virgilio Sieni”, oltre a essere il nome di un importante coreografo italiano, nato a Firenze nel 1957, è anche il nome di un libro, un’intervista dedicata proprio all’artista italiano. È stato pubblicato dalla casa editrice “L’Epos” nel corso del 2011 ed è stato scritto da Vito Di Bernardi, professore associato in Discipline dello spettacolo e insegnante presso l’Università degli Studi di Siena nelle materie Storia del Teatro e Storia della Danza.
Si tratta di un percorso artistico che i due protagonisti, l’intervistato e l’intervistatore, ci fanno vivere grazie a una piacevole chiacchierata, in cui Virgilio Sieni racconta la sua vita.
È ricca la formazione del coreografo e regista fiorentino, interessato sia alla cultura classica che a quella moderna. Sieni è interessato all’arte rinascimentale come a quella contemporanea, è interessato al balletto classico come alla danza di Paxton o di Cunningham, e riesce a trovare un linguaggio personale, originale, che lo contraddistingue, riuscendo a trovare una valida commistione, grazie alla sua abilità di unire vecchio e nuovo, tra la forma classica e la forma moderna, senza mai perdere di vista l’unicità, la compostezza dello spettacolo, uno spettacolo in cui il vero protagonista è il danzatore, perché è proprio lui a creare la spazialità, a dare vita a una rappresentazione che senza il suo apporto non sarebbe dinamica, non sarebbe, appunto, spettacolo.
L’intervista arriva fino a “Tristi Tropici”, spettacolo del 2010, in cui il coreografo fa una lettura dell’omonimo famoso libro dell’antropologo francese Lévi-Strauss, in cui lo scrittore si dimostra turbato davanti all’indifferenza degli uomini che stanno perdendo, a causa della massificazione e di un’industrializzazione senza confini, la loro consapevolezza di essere entità naturali e non solo sociali.
Questa pubblicazione di Vito Di Bernardi è sicuramente un documento importante per il mondo del teatro-danza, ché ci tramanda e ci fa conoscere a fondo una delle più importanti figure della nostra danza contemporanea.

Stefano Duranti Poccetti

22 settembre, 2012

Teatro d’Italia, tra Arte e riscoperta. Massimo Siragusa al Cortona On The Move





Cinecittà
Come si sa dall’intervista che il Corriere fece ad Antonio Carloni, Cortona On The Move sta per festival fotografico itinerante, visibile in più luoghi della città di Cortona (AR). Una di queste postazioni è la Fortezza del Girifalco, in cui, all’interno, tra gli altri, sono esposte le foto del fotografo Massimo Siragusa (1958), docente presso lo IED di Roma.
The Secret Papers
La fotografia di Siragusa è come se fosse pittura. Di primo acchito, infatti, queste opere potrebbero veramente sembrare dei dipinti, dipinti ben studiati dal punto di vista prospettico, dipinti che ritraggono quei luoghi splendidi, a volte nascosti, che possono sfuggire all’occhio di un visitatore in giro per l’Italia. “Teatro d’Italia” il nome della mostra del fotografo romano, dove, appunto, Siragusa, con la sua macchina fotografica, vuole fare scoprire all’occhio dello spettatore le meraviglie del nostro Paese, presentandole in modo veramente artistico, appunto, pittorico. È così che “Cinecittà”, ripresa in una costruzione di Roma antica, diventa quasi un quadro di Veronese o di Tintoretto, con il suo lungo e profondo senso prospettico. Il fotografo ci fa anche scoprire, con “The Secret Papers”, i tesori della Biblioteca Palatina di Parma e lo fa con una punto di vista angolare che mette in risalto tutta la bellezza della sala, coi suoi scaffali, con i suoi migliaia di volumi. “La piazza, da Luoghi dell’Infinito” è poi una fotografia quasi astratta di Ummari, dove queste poche architetture geometriche, minimali, anche a contrasto tra di loro, offrono un’atmosfera quasi da quadro di De Chirico.
La piazza di Ummari
Insomma, è forte l’intenzione artistica del fotografo Siragusa, come è forte, credo, anche quell’intenzione di restituire all’Italia quello che è suo, restituirle quei Teatri che sembrano persi, quando in realtà sono solo nascosti, basta scovarli.
Questa è una delle mostre del Cortona On The Move, Festival, che, ricordo, sarà nella città di Cortona, nella provincia di Arezzo, fino al 30 settembre.



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Stefano Duranti Poccetti 

17 settembre, 2012

"Strappo", la poesia -tradotta in italiano da Daria D. e pubblicata per la prima volta nel nostro Paese- che la famosa poetessa Sepideh Jodeyri dedica a tutti gli Iraniani in esilio



STRAPPO  di Sepideh Jodeyri
Dedicata a tutti gli Iraniani in esilio
Traduzione dall’inglese di Daria D.


Ho conosciuto Sepideh Jodeyri, la poetessa iraniana,  nella bella cittadina di Chiusi, un giorno d’estate.
Mi chiese di leggere, davanti al pubblico, una sua poesia dedicata agli iraniani in esilio, che era stata tradotta in inglese, ma non in italiano.
Sepideh parla poche parole di italiano e così abbiamo conversato sempre in inglese. Mi ha ricordato tante giovani donne che incontravo a Los Angeles dove c’è una vasta comunità di rifugiati iraniani. Gli stessi occhi profondamente neri, grandi, i capelli lucenti e  lunghi, la bocca sensuale, il naso importante, mai troppo piccolo: donne a mio parere molto belle, molto femminili.
Sepideh vive da  più di un anno  a Chiusi, perché membro dell’ ICORN (International cities of refuge network.), con la sua famiglia e scrive poesie.
Ma pur amando e apprezzando la terra e le persone che la ospitano, Sepideh ha nostalgia del suo paese da cui è stata costretta a scappare.  Dentro al suo cuore è avvenuto uno strappo, come dice il titolo che io ho dato alla sua poesia,  da tutto quello che amava, ma scappando ha messo in salvo sé stessa come donna e poetessa, e la sua famiglia. Non possiamo che essere felici che sia qui con noi, anche se quello strappo, come una ferita, si rimarginerà solo se potrà tornare in Iran, ma da donna libera, per vivere e creare senza paura.
Ringrazio Sepideh della fiducia che mi ha concesso e mi auguro di poter  presto tradurre anche  le sue poesie Italiane.

Daria D.


Rossi gli occhi della vostra rabbia
contro di me
che  stordita dal pianto
me ne vado.
Oh luce  imprigionata per troppo tempo!  Lacera il mio corpo ed esci!
Trattengo presagi  di morte
Come chi  il dolore  dietro una porta nasconde.
Potessi  strappare  da Baqi[1] a Khavaran[2] i lamenti delle anime dei morti  e poi andar via!
Potessi  colmarmi del raffinato nome Teheran  e poi andar via!
Oh luce  imprigionata per troppo tempo!  Lacera il mo corpo ed esci!
Potessi trovare  la forza di urlare, urlare
Fino a lacerarvi le orecchie
Urlare… 
Questo  mondo mi accusa di peccati che per voi  son senza peso!
Questo  mondo mi accusa di peccati, di cui voi ridereste a lungo!
Questo mondo mi accusa di peccare
Perché  son urlo e luce
E  ho la forza di  lacerare le tenebre.
Potessi  macchiarmi di peccati ridicoli e poi andarmene!

E’ scoccata l’ora,  è tempo di andare
Come una mezzanotte fiabesca
Il trucco crudele che ho sulla faccia si prende gioco della realtà: è mezzanotte!
E dallo squarcio del  mio corpo possano fiorire innumerevoli  frutti
E voi sorgenti addormentate riprendete a scorrere sopra la mia testa, è mezzanotte!
Oh luce imprigionata per troppo tempo!  Lacera il mo corpo ed esci!
Voi spade pendenti sopra la mia testa
Voi  fratture del mio cranio
E il ciclico ripetersi del sole che sorge sulla terra
E  dell’aria  che si diverte ad inghiottirmi! [3]
Oh Egitto!
Il giorno delle donne è arrivato!
Un corpo non più avvolto da tenebre ancestrali
Nudo ai nostri occhi si mostra[4]
E nuova  luce  emergerà sulla terra
Per rendere tutto sorprendente.
Potessi portare con me poesia, sangue e pane[5]  e poi andar via!
Il  ranginak[6] che cuocemmo  era  più colorato del nostro sangue
E l’amore che credevo così grande 
Si è infranto, cadendo
Sputo sulla tomba del padre!
Tutto quello che ho e che non ho lo devo a lui!
Potessi  portare con me  le tombe riempite a metà e poi andarmene!

E anche tutto ciò che è rimasto!
E anche tutto ciò  che è rimasto!
E anche tutto ciò che è rimasto!

Il cielo che mi circonda rimane buio
Come i giorni che passano senza portare nulla
E le acque che un tempo scorrevan copiose
Son le acque più asciutte della terra
Come me, che non son  donna
Né  colore
Né  anima
Ma  un viso  che passa sulla terra
E se ne va.



[1] Baqi è un famoso cimitero a Medina, dove molti rappresentanti religiosi del primo islamismo, inclusi quattro Imam Sciiti, sono sepolti.
[2] Khavaran è un territorio tristemente famoso di Teheran, dove, in un’arida zona, molti prigionieri politici massacrati insieme ad altre vittime del regime, furono sepolte nel 1988.
[3] Richiamo al libro di poesie di Sepideh Jodeyri dal titolo “Sogno di una ragazza anfibia”. Prima edizione 2000, Pe’yar Publications, Tehran. Seconda edizione a cura di Sahnehha Digital Publications, Svezia, 2008.
[4] I versi sono un richiamo voluto  al verso “Oh tu mio tesoro, mio unico tesoro” di Forough Farokhzad, poetessa iraniana, come senso di partecipazione e adesione al gesto di ribellione di Aliaa Magda Elmahady.
[5] Dall’articolo di Adrian Ridge, poetessa e femminista americana, intitolato “Sangue, pane e poesia: la dimora del poeta”, pubblicato in The Massachusetts Review, 1983.
[6] Ranginak è un dolce fatto di datteri, noci, burro e farina, che nel sud dell’Iran viene servito durante i funerali. 

13 settembre, 2012

Meglio tardi che mai! - La musica e i luoghi di Django Reinhardt, attraverso l'esperienza di Dario Napoli



Così è trascorso un altro anno e tutti i seguaci del manouche mondiale, me compreso, si sono di nuovo ritrovati nella cittadina che fu l'ultima residenza di Django Reinhardt, Samois sur Seine, per il festival annuale in onore del grande Maestro. Questa è stata la mia terza volta e, come le volte precedenti, ho lasciato Samois fantasticando di poter vivere lo spirito e l'atmosfera del festival per almeno 10 mesi l'anno... musicisti di livello, provenienti da tutto il mondo, sono giunti in una foresta magica sulla Senna, a 60 chilometri a sud di Parigi, tutti disponibilissimi a condividere le loro esperienze e tutti con una gran voglia di suonare, non solo chitarre, ma violini, contrabbassi, fisarmoniche, voci, trombe, sax, tutti per lo swing, in particolare quello dei capostipiti Django e il suo violinista Grappelli.
Visitando Samois, è facile comprendere perché  Django, anche pescatore e pittore, scelse quest'ultima come sua dimora fissa (cosa particolare per i manouche, che sono zingari). Il fittissimo verde, la magica Senna e gli angoli pacifici del centro abitato sono semplicemente da cartolina. Ma oggi, chi ci va, va soprattutto per la musica.




Per la prima volta, non sono andato a Samois da solo, infatti siamo riusciti ad organizzare un contingente dei massimi esponenti del genere in Italia e, in stile tipicamente manouche, ci siamo carovanati alla volta di Parigi, partendo da Arezzo, passando per Firenze, Bologna, Milano, il Frejus, e via via. Questo è stato davvero un viaggio e un esperienza unica, un'irripetibile opportunità di scambio con grandi musicisti come Maurizio Geri, Jacopo Martini, Augusto Creni, Tolga During, Walter Clerici, Daniele Gregolin... Alcuni di essi li avevo già incontrati, altri li conoscevo solo per nome. Come conseguenza, ho già posto basi per delle collaborazioni interessanti. Augusto Creni è venuto a trovarmi  per dei concerti a due e stiamo sviluppando un progetto insieme.
Maurizio Geri mi ha invitato spesso a suonare allo stand della Galli, società prestigiosa napoletana di corde per chitarra con cui si stanno sviluppando idee di lavoro. È stato fantastico incontrare di persona, suonare assieme, ed ascoltare musicisti del calibro di Wawau Adler, il mio mentore Fapy Lafertin, Lollo Meier, Denis Chang. È stato emozionante assistere all'apertura del festival dell'amico argentino Gonzalo Bergara (che ha saputo contenere l'emozione, che era altissima!). Lui è davvero l'esempio di uno che è riuscito a trasformare il suo sogno in realtà.
Andare a Samois poi offre sempre l'opportunità di rendere omaggio all'individuo che ha reso tutto ciò possibile. In questo viaggio ho rivisitato la casa di Django, una bellissima casa in pietra a metri dalla Senna, e poi, per la prima volta, la salma. Senza cadere in inutile retorica, l'esperienza è un forte ricordo dell'influenza che ha avuto quest'uomo sulla musica del 21esimo secolo e nel mondo jazz e oltre.
Quindi, nonostante l'inevitabile perdita di sonno, inconvenienze da campeggio, dieta dominata dalla baguette, non vedo l'ora di tornare l'anno prossimo, dove la tradizione di Django e suoi determinati seguaci rivivrà nuovamente, non solo per preservare questo meraviglioso genere musicale, ma anche per allargarne i confini e proiettarlo verso il suo promettente futuro.

Dario Napoli

10 settembre, 2012

Davide Puma, il pittore dell’essere e non del sembrare




Mondo
Ascolto
Non sono solo volti, non sono solo mondi, non sono solo animali… ammirando un’opera di Davide Puma non è l’esteriorità dei raffigurati che emerge, ma la loro interiorità: la loro anima. Gli "Ascolti" non sono allora solo dei volti, sono dei volti che stanno volgendo la loro attenzione all’interno e non all’esterno, sono volti che non vogliono mostrarsi per quello che sembrano, ma per quello che sono, sono volti che si perdono tra i ricchi meandri interiori, tra i meandri del pensiero e del sogno… E così il “Mondo”, non è quel mondo disegnato scientificamente in un libro di geografia o di scienza, ma è un mondo sfumato, un mondo che non si vuole mostrare nella sua perfetta bellezza e rotondità, ma si sente in lui la volontà di farci percepire tutta la sua storia: assaporiamo amori, odi, guerre, paci, vittorie, sconfitte… è tutta la storia del mondo che ci sta davanti e non il mondo, ecco dunque che il mondo svela finalmente la sua anima, come del resto la svelano i gabbiani di “Il volo” o le mucche di “La messa è finita” o il “Cavallo d’autore”. È come se l’artista volesse intrappolare quel determinato momento destinato a diventare storico, come se volesse che quegli atti, quelle azioni da lui dipinti, facciano parte, in qualche modo, del mondo terreno, in qualche altro no, ed è come se il sogno, il “pensiero” di questi animali, ripresi spesso in situazioni meditative, diventino i protagonisti dell’opera: non i cavalli, non le mucche, ma i loro pensieri, i loro sogni, le loro anime.



Grande sensibilità dell’artista si nota anche nelle tele che dedica alle donne. “Interno al femminile” è un vero e proprio trittico in cui il volto della stessa donna viene ritratto in tre diverse posizioni meditative. C’è sensualità nel dipinto, ed emerge, ancora una volta, lo spirito interiore che, sovrastando la forma apparente, delinea dall’interno i tratti di questa donna: È una donna che ha sofferto per amore? È una donna che sta vivendo una passione? È semplicemente una donna che si sta rilassando? Potrebbe essere molte cose, ma la certezza è che si tratta di una donna che vuole aprire il proprio vissuto agli altri, che non vuole mostrarsi per come sembra ma per come è, e sembra proprio questa, in ultima analisi, la principale caratteristica dell’artista Davide Puma: dipingere non quello che sembra, ma quello che è, senza peraltro rinunciare alla bellezza formale.

Se volete visitare le opere di Davide Puma potete andare a Cortona, nella provincia di Arezzo, dove potete trovare i suoi dipinti nella Galleria Triphè (Ex-Chiesa di San Carlo Borromeo), per una mostra curata da Maria Laura Perilli. Siete in tempo fino al 30 di settembre.

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Stefano Duranti Poccetti

07 settembre, 2012

VIAGGIO ATTRAVERSO L'IMPOSSIBILE - sogni di cinema, a cura di Francesco Vignaroli. Nona puntata: "Il tempo dei cavalli ubriachi".



IL TEMPO DEI CAVALLI UBRIACHI        IRAN    INVERNO 99/00  78'  COLORE

REGIA : BAHMAN GHOBADI

INTERPRETI : AIYUB AHMADI, ROJIN YUNESSI, AMENEH EKHTIARDINI, MEHDI EKHTIARDINI, KULSUM EKHTIARDINI, KARIM EKHTIARDINI

EDIZIONE DVD : NO. Attualmente il film è disponibile solo in VHS, edita da MEDUSA HOME ENTERTAINMENT

La durissima vita quotidiana di cinque fratelli orfani in uno sperduto villaggio curdo, al confine tra Iran e Iraq. Dopo la morte del padre, Aiyub, l'unico maschio valido di casa, si mette a fare il contrabbandiere lungo quella che è tuttora una delle frontiere più calde e pericolose del pianeta, con la speranza di guadagnare la somma necessaria per l'operazione di Mehdi, affetto da una grave forma di nanismo. Dimostratisi insufficienti gli sforzi del ragazzo, la sorella Rojin accetta il matrimonio con un iracheno benestante, con la promessa che la famiglia di questi si farà carico anche del fratello handicappato. Ma la madre dello sposo rifiuta Mehdi rimandandolo dallo zio dei ragazzi (che aveva condotto le trattative dello sposalizio), assieme ad un mulo quale misera dote matrimoniale per Rojin. Ad Aiyub, come ultima possibilità, non resta che tentare di varcare di nuovo il confine per vendere l'animale in Iraq, salvo poi ritrovarsi coinvolto nell'ennesima imboscata. Ma non c'è altra scelta, bisogna andare avanti...

Folgorante esordio alla regia -che ha fruttato una meritatissima CAMERA D'OR a Cannes 2000- dell'allora trentenne Bahman Ghobadi (1969), primo regista curdo-iraniano della storia (qui anche sceneggiatore e produttore), già assistente del maestro Kiarostami e attore nel film "LAVAGNE" (2OOO) di Samira Makhmalbaf -figlia di Mohsen, altro grande del cinema iraniano-.


 Con l'esplicito desiderio di omaggiare la propria cultura "HERI" ed il popolo curdo nella sua frastagliata interezza, Ghobadi torna nei luoghi in cui è nato e vissuto filmando l'esistenza reale delle persone che ha conosciuto ("CON LA VITA VERA DI...", come recitano i titoli di testa: il regista non fa ricorso ad alcun attore professionista), attingendo ai propri ricordi ed alla cruda realtà, senza alcuna concessione allo "spettacolo". Se da un lato dimostra di aver assimilato la lezione di Kiarostami, soprattutto per quanto riguarda il generale impianto neorealista della narrazione, dall'altro se ne discosta rinunciando ai tipici spunti lirici delle sceneggiature del maestro, piuttosto inclini ad un raffinato intellettualismo letterario e sperimentale (si pensi a film come "IL SAPORE DELLA CILIEGIA" o "IL VENTO CI PORTERA' VIA"), optando invece per un crudo realismo quasi documentaristico, privo di orpelli e concreto fino a far provare dolore; tutto ciò non esclude una raffinata cura dei dettagli formali, tale da trasfigurare magicamente nel sublime la miseria ed il dolore onnipresenti, e tale da rendere affascinante e poetica una Natura leopardianamente ostile ed impietosa.
Con uno sguardo al tempo stesso partecipe e obiettivo (una splendida contraddizione ossimorica), con una compassione e un affetto che non escludono lucidità e spirito critico, Ghobadi ci racconta la quotidiana lotta per la sopravvivenza della sua gente, che è poi la condizione generale del Kurdistan: storia di un "PAESE MANCATO" -un punto interrogativo sulle carte geografiche-, storia di un popolo moralmente, culturalmente, socialmente e politicamente sommerso, afflitto da mali atavici che ne hanno impedito la crescita fino al punto tale da renderlo incapace di garantire una vita decente ai propri figli, la cui infanzia è sistematicamente negata e violata, proprio come nel caso dei cinque fratellini del film. Il corpicino deforme di Mehdi diviene così crudele metafora di un'umanità (dell'umanità in generale) malata, impotente, immatura, mai completamente cresciuta né fisicamente né mentalmente, drammaticamente grottesca nel suo caracollare alla cieca e nel suo essere incapace di provvedere a sé stessa. Il regista decide di mostrarci questo spicchio di mondo con coraggio ed onestà esemplari, senza vergogna né censure, raggiungendo picchi di intensità drammatica quasi insostenibili (Mehdi che trema per il freddo sotto la tempesta di neve; la disperazione e la paura di Aiyub dopo l'imboscata; il rifiuto di Mehdi da parte della famiglia dello sposo; il maltrattamento disumano dei muli...), tra poesia e struggimento. Quale futuro si può immaginare per un paese dove anche i quaderni sono oggetto di contrabbando?

Neo-neorealismo dalla parte degli ultimi, carico di un'emozione divenuta merce pressoché introvabile nel cinema occidentale contemporaneo, che sembra aver smarrito la capacità, o forse la voglia, di indagare e rappresentare la realtà -che abbiano ragione coloro i quali sostengono che la vera arte possa nascere soltanto dalla sofferenza?- preferendo illudere anziché mostrare.
Kurdistan anno zero dunque, ma se tra Neorealismo italiano e Nuovo Cinema Iraniano vi sono evidenti analogie concettuali, a scavare un solco invalicabile tra i due movimenti cuturali provvede la radicale diversità dei rispettivi contesti storico-sociali (a cominciare dal fatto che il nostro neorealismo nasceva sulle macerie del più grande evento cortocircuitale del '900, la seconda guerra mondiale, mentre quello iraniano muove da presupposti sociali e politici di tutt'altro tipo, risultanti da una situazione negativa che si trascina da lungo tempo e non da un ben definito fatto traumatico di rottura).

Il titolo del film allude alla pratica, in uso tra i contrabbandieri, di far ubriacare i muli con l'alcool per far sì che resistano meglio al freddo e alla fatica, un po' come facevano gli ufficiali con i soldati mandati al fronte, storditi con abbondanti dosi di vino o gas esilarante (come mostrato in alcune celebri sequenze di "ARSENALE", film muto del 1928 per la regia del sovietico Dovzenko).

L'impermeabilino giallo di Mehdi come il cappottino rosso della bambina di "SCHINDLER'S LIST".


Francesco Vignaroli

01 settembre, 2012

Al Festival delle Nazioni la Franz Liszt Chamber Orchestra. Tra Ungheria e altro…



Chiesa di San Francesco, Città di Castello. “Festival delle Nazioni”, mercoledì 29 agosto 2012


Nel sacro “teatro” della chiesa di San Francesco risuonano le note della “Sinfonia da camera in do minore op. 110a” di Dmitrij Šostakovič, note liriche e, perché no, ieratiche, rese ancora più intense dall’atmosfera del luogo scelto per il concerto. Bella, sentita, pulita l’esecuzione della “Franz Liszt Chamber Orchestra”, abile nel giocare con il reciproco rapporto tra la parte sinistra dell’organico, composto da violini e viole, e la parte destra, composto da violoncelli e contrabbasso. La musica del compositore russo oscilla tra poetici e sentimentali rimandi romantici e ritmi contemporanei, novecenteschi, in un perfetto connubio di armonia e di ritmia.
L’orchestra si dimostra anche all’altezza del “Concerto in re per orchestra per archi” di Igor Stravinsky, un brano, com’è tipico del musicista, creato dalla successione di chiari ritmi binari e ternari, in cui emergono passi di marcia e danzanti. Questa chiarezza, questa pulizia compositiva, anche minimale, è appresa pienamente dai musicisti in scena, che la rendono al pubblico con grande vitalità e dinamicità.
Dopo l’intervallo si passa al programma ungherese –d’altra parte quest’anno il Festival è dedicato all’Ungheria- e ne è Béla Bartók il primo protagonista, con il suo “Divertimento per orchestra d’archi”. Non sono un grande estimatore di questa composizione, piena di corpi ritmici che s’intrecciano tra di loro, dando luogo a un’infinità, e anche a un caos, di diverse linee melodiche che “stressano” la composizione, facendola divenire inconsistente –o troppo consistente, ad libitum.
Si conclude il concerto con un brano classico, la “Rapsodia Ungherese numero 2 in do diesis minore” di Ferenc Liszt con trascrizione orchestrale di Peter Wolf. La Rapsodia la preferisco per pianoforte, ma anche questa orchestrazione, benché snaturi in parte la partitura pianistica, non è male e gli elementi dell’orchestra, dialogando tra di loro, colorano il brano di piacevoli fioriture timbriche.
L’Orchestra concede anche due fuori programma, terminando la serata con la “Danza Ungherese numero 4” di Brahms, compositore non ungherese, ma che ha scritto “Danze Ungheresi”, ed è proprio su queste note che si compie un’ottima serata di musica, impreziosita da una distinta esecuzione orchestrale.

Stefano Duranti Poccetti