IL TEMPO DEI CAVALLI UBRIACHI IRAN
INVERNO 99/00 78' COLORE
REGIA : BAHMAN GHOBADI
INTERPRETI : AIYUB AHMADI, ROJIN YUNESSI, AMENEH
EKHTIARDINI, MEHDI EKHTIARDINI, KULSUM EKHTIARDINI, KARIM EKHTIARDINI
EDIZIONE DVD : NO. Attualmente il film è disponibile solo
in VHS, edita da MEDUSA HOME ENTERTAINMENT
La durissima vita
quotidiana di cinque fratelli orfani in uno sperduto villaggio curdo, al
confine tra Iran e Iraq. Dopo la morte del padre, Aiyub, l'unico maschio valido
di casa, si mette a fare il contrabbandiere lungo quella che è tuttora una
delle frontiere più calde e pericolose del pianeta, con la speranza di
guadagnare la somma necessaria per l'operazione di Mehdi, affetto da una grave
forma di nanismo. Dimostratisi insufficienti gli sforzi del ragazzo, la sorella
Rojin accetta il matrimonio con un iracheno benestante, con la promessa che la
famiglia di questi si farà carico anche del fratello handicappato. Ma la madre
dello sposo rifiuta Mehdi rimandandolo dallo zio dei ragazzi (che aveva
condotto le trattative dello sposalizio), assieme ad un mulo quale misera dote
matrimoniale per Rojin. Ad Aiyub, come ultima possibilità, non resta che
tentare di varcare di nuovo il confine per vendere l'animale in Iraq, salvo poi
ritrovarsi coinvolto nell'ennesima imboscata. Ma non c'è altra scelta, bisogna
andare avanti...
Folgorante esordio
alla regia -che ha fruttato una meritatissima CAMERA D'OR a Cannes 2000-
dell'allora trentenne Bahman Ghobadi (1969), primo regista curdo-iraniano della
storia (qui anche sceneggiatore e produttore), già assistente del maestro
Kiarostami e attore nel film "LAVAGNE" (2OOO) di Samira Makhmalbaf
-figlia di Mohsen, altro grande del cinema iraniano-.
Con l'esplicito
desiderio di omaggiare la propria cultura "HERI" ed il popolo curdo
nella sua frastagliata interezza, Ghobadi torna nei luoghi in cui è nato e
vissuto filmando l'esistenza reale delle persone che ha conosciuto ("CON
LA VITA VERA DI...", come recitano i titoli di testa: il regista non fa
ricorso ad alcun attore professionista), attingendo ai propri ricordi ed alla
cruda realtà, senza alcuna concessione allo "spettacolo". Se da un
lato dimostra di aver assimilato la lezione di Kiarostami, soprattutto per
quanto riguarda il generale impianto neorealista della narrazione, dall'altro
se ne discosta rinunciando ai tipici spunti lirici delle sceneggiature del
maestro, piuttosto inclini ad un raffinato intellettualismo letterario e
sperimentale (si pensi a film come "IL SAPORE DELLA CILIEGIA" o
"IL VENTO CI PORTERA' VIA"), optando invece per un crudo realismo
quasi documentaristico, privo di orpelli e concreto fino a far provare dolore;
tutto ciò non esclude una raffinata cura dei dettagli formali, tale da
trasfigurare magicamente nel sublime la miseria ed il dolore onnipresenti, e
tale da rendere affascinante e poetica una Natura leopardianamente ostile ed
impietosa.
Con uno sguardo al
tempo stesso partecipe e obiettivo (una splendida contraddizione ossimorica),
con una compassione e un affetto che non escludono lucidità e spirito critico,
Ghobadi ci racconta la quotidiana lotta per la sopravvivenza della sua gente,
che è poi la condizione generale del Kurdistan: storia di un "PAESE
MANCATO" -un punto interrogativo sulle carte geografiche-, storia di un
popolo moralmente, culturalmente, socialmente e politicamente sommerso,
afflitto da mali atavici che ne hanno impedito la crescita fino al punto tale
da renderlo incapace di garantire una vita decente ai propri figli, la cui
infanzia è sistematicamente negata e violata, proprio come nel caso dei cinque
fratellini del film. Il corpicino deforme di Mehdi diviene così crudele
metafora di un'umanità (dell'umanità in generale) malata, impotente, immatura,
mai completamente cresciuta né fisicamente né mentalmente, drammaticamente
grottesca nel suo caracollare alla cieca e nel suo essere incapace di
provvedere a sé stessa. Il regista decide di mostrarci questo spicchio di mondo
con coraggio ed onestà esemplari, senza vergogna né censure, raggiungendo
picchi di intensità drammatica quasi insostenibili (Mehdi che trema per il
freddo sotto la tempesta di neve; la disperazione e la paura di Aiyub dopo
l'imboscata; il rifiuto di Mehdi da parte della famiglia dello sposo; il
maltrattamento disumano dei muli...), tra poesia e struggimento. Quale futuro
si può immaginare per un paese dove anche i quaderni sono oggetto di
contrabbando?
Neo-neorealismo dalla
parte degli ultimi, carico di un'emozione divenuta merce pressoché introvabile
nel cinema occidentale contemporaneo, che sembra aver smarrito la capacità, o
forse la voglia, di indagare e rappresentare la realtà -che abbiano ragione
coloro i quali sostengono che la vera arte possa nascere soltanto dalla
sofferenza?- preferendo illudere anziché mostrare.
Kurdistan anno zero
dunque, ma se tra Neorealismo italiano e Nuovo Cinema Iraniano vi sono evidenti
analogie concettuali, a scavare un solco invalicabile tra i due movimenti
cuturali provvede la radicale diversità dei rispettivi contesti storico-sociali
(a cominciare dal fatto che il nostro neorealismo nasceva sulle macerie del più
grande evento cortocircuitale del '900, la seconda guerra mondiale, mentre
quello iraniano muove da presupposti sociali e politici di tutt'altro tipo,
risultanti da una situazione negativa che si trascina da lungo tempo e non da
un ben definito fatto traumatico di rottura).
Il titolo del film
allude alla pratica, in uso tra i contrabbandieri, di far ubriacare i muli con
l'alcool per far sì che resistano meglio al freddo e alla fatica, un po' come
facevano gli ufficiali con i soldati mandati al fronte, storditi con abbondanti
dosi di vino o gas esilarante (come mostrato in alcune celebri sequenze di
"ARSENALE", film muto del 1928 per la regia del sovietico Dovzenko).
L'impermeabilino
giallo di Mehdi come il cappottino rosso della bambina di "SCHINDLER'S
LIST".
Francesco Vignaroli
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