La Nascita di Venere, Sandro Botticelli |
Arrivai quasi al tramonto con la mia vecchia
MG azzurra.
Avevo deciso di lasciare Milano per
passare qualche giorno in un posto dove non ero mai stato: Porto Venere, sulla
costa ligure.
Dopo avere attraversato la città della
Spezia, avevo guidato lungo la strada costiera che partiva dal porto e da cui
si vedevano le navi militari, i cantieri, le raffinerie, le gru, immersi nella
magnifica natura del golfo. Era chiamato il Golfo dei Poeti, e per me, poeta,
non poteva che essere di buon auspicio. Sapevo di Byron e della grotta che gli
avevano dedicato, e questo mi aveva incuriosito e, devo confessare, anche
spinto alla ricerca di una nuova ispirazione
e di quel filo creativo che si era spezzato dopo un rapporto appena finito.
L’amore non pensavo più di ritrovarlo,
era stato così forte quello che avevo vissuto, che mi sarei accontentato di una
Musa ispiratrice, com’era accaduto al poetico Lord che, si dice, nuotava da
Lerici fino a qui per incontrarla e dedicarle i suoi versi.
Le donne belle e sensibili, un po’
angeli e un po’ demoni, erano la mia passione e a loro dedicavo i miei sonetti come
un poeta del Dolce Stil Nuovo. Qui, più che altrove, mi sarei sentito un
gabbiano sulle ali della fantasia.
La strada era stretta, mi lasciavo
alle spalle tutti i borghi marinai senza vederne la fine che sembrava sempre
dietro all’ennesima curva. Il mare era calmo e delicatamente tinto di rosso.
L’ultimo paese fu Le Grazie, e se non
avessi avuto l’altra meta in testa, forse mi sarei fermato, ma davanti a Venere
quale uomo potrebbe resistere?
La strada, dopo circa dodici
chilometri in salita, sul punto più alto curvava a destra e scendeva diventando
a senso unico.
Quasi persi il controllo della mia già
instabile MG, quando mi si presentò davanti il più bel sogno ad occhi aperti
che avessi mai fatto.
Una chiesa sulle ultime propaggini del
paese era protesa come polena verso l’orizzonte, da una parte e su un canale di
mare stretto da un’isola, dall’altra
Dovetti fermarmi su un belvedere e
pizzicarmi un braccio, anche se da quel sogno non avrei mai voluto
risvegliarmi.
Ripresi il volante, e mi lasciai
guidare dalla macchina, felice, pieno di aspettative e ancora in trance.
Gli ulivi mi diedero il benvenuto, le
buganvillee coloravano le case che erano già a colori vivaci.
Mi trovai poco dopo a sterzare a
sinistra, superando alla mia destra l’intero paese che languidamente si
affidava alla notte che avanzava.
Parcheggiai l’auto, lasciando le
valige nel bagagliaio e decisi di sgranchirmi le gambe e magari chiedere
informazioni ai locali su qualche albergo dove dormire.
Era metà maggio, e ancora non c’era
quella folla rumorosa e tutto sommato distratta che invade, come se non ne
potesse fare a meno, i luoghi più remoti e solitari. Mi piacque così, senza
gente, fatta eccezione per i residenti che si distinguevano pur essendo una
cosa sola con il paesaggio.
Sulle panchine gli anziani che
discutevano sembravano giovanissimi, con le loro belle facce segnate dal sole e
i cappelli da marinaio, consunti, ma di grande effetto. La loro cadenza ligure
mi giungeva all’orecchio, e li sentivo parlare del tempo, della pesca e di
politica.
Mi avviai lungo la passeggiata, la
calata, com’era chiamata, sbirciando i pescherecci da un lato e i ristoranti e
i bar dall’altro.
Come sudditi nelle loro divise gialle,
rosa, rosse, verde, le case si affacciavano sul mare, adorne di fiori, di
biancheria e di reti da pesca.
Avevo voglia di sedermi, ma non ancora
di cenare, nonostante un profumo di pesto mi giungesse alle narici ricordandomi
l’esistenza di questa straordinaria salsa.
Ovunque c’erano gatti che sembravano i
veri padroni del paese. Uno grigio con gli occhi gialli si strusciò nei
pantaloni e mi accompagnò al bar, dove decisi di fermarmi a bere qualcosa. O
forse lo decise lui.
Le sedie erano a colori vivaci e a
differenza degli altri locali, aveva un’ampia terrazza proprio sul mare. Mi
sedetti e mi posi in modo da vedere la chiesa che da lì sembrava emergere dal
mare, con quel colore grigiastro così simile alle rocce. Mi domandai che
effetto avrebbe fatto vederla da un’altra prospettiva. Si sarebbe immersa nel mare o avrebbe volato
come gabbiano per poi posarsi sulle rocce della grotta dedicata al famoso
poeta?
Credevo di essere lì da solo, ma
quando girai la testa, seduta a un altro tavolino, c’era una donna che
sorseggiava un aperitivo e leggeva un libro.
Era molto bella, ma mi parve di
intravvedere della malinconia in quei suoi occhi che per un attimo alzò dalle
pagine per incrociare i miei.
Erano azzurri, profondi e dolcissimi.
Non sapevo se guardare lei o la
chiesa. Allora decisi di cambiare tavolino per averli entrambi sotto gli occhi.
I pescherecci tornavano in porto,
virando nel canale le loro prue, trascinando le reti cariche di pesci. Qualche
nuotatore pigramente andava su e giù lungo la riva. Un gabbiano mi si posò sul
tavolino e sfacciatamente cominciò a fissarmi, curiosando nei miei pensieri.
Al cameriere, dopo avere ordinato un
bicchiere di Vermentino, chiesi informazioni sugli alberghi del posto. Mi disse
che alcuni erano chiusi per lavori, e che se avevo la macchina, avrei
sicuramente desiderato parcheggiarla al sicuro e senza troppi problemi. Mi diede il nome di un Hotel a circa un chilometro,
facilmente raggiungibile a piedi camminando lungo la bella passeggiata.
Ebbi la sensazione che la mia vicina
stesse ascoltando la conversazione e avrei quasi voluto chiedere a lei un
consiglio, ma aveva l’aria di una straniera, e la lasciai alla sua lettura.
L’aria era ancora tiepida, anche se il
sole era calato, lasciando le Alpi Apuane che si vedevano dall’altra parte del
golfo ombreggiarsi di viola.
A un certo punto lei si alzò e con un
leggero sbatter di ciglia a mo’ di saluto, s’incamminò verso la chiesa. Era
elegante, le gambe erano perfette, leggermente abbronzate, due adorabili
natiche fasciate da una gonna di panno bianco, un cardigan le copriva le belle spalle
da nuotatrice, i capelli erano ondulati, del color della luna.
Rimasi solo con il gabbiano il quale sembrava
rimproverarmi per averla lasciata andare via.
Decisi di seguire il consiglio del
cameriere e di prendere alloggio all’albergo consigliatomi, ma prima volli
esplorare ancora un po’.
Alla fine di una scalinata mi trovai
su un piazzale che portava alla chiesa e alla grotta di Byron.
Mi fermai e lessi l’iscrizione
all’entrata, dove c’era un piccolo cancello. Mi sembrò di essere salito sul
palcoscenico di un’opera, e mi aspettavo che prima o poi arrivasse il vascello
fantasma dell’Olandese volante o meglio, del nostro Poeta. Le rocce erano scure e disposte ad anfiteatro,
grandi lastroni di roccia s’immergevano nel mare, il tutto dominato da un
piccolo cimitero sulla collina e dalla chiesa che brillava di stelle.
Nell’oscurità distinsi una figura
vestita di bianco appoggiata alla ringhiera che guardava verso il mare aperto.
Era la donna del bar. La mia Musa.
Le onde s’infrangevano e ritornavano
indietro con una regolarità che aumentava di forza sempre un po’ di più. Altri
suoni non si udivano.
Anche in questa circostanza avrei
voluto rivolgerle la parola, ma sentivo che se l’avessi fatto avrei fermato
quel processo che mi sembrava di percepire nella sua mente, di lasciare
affogare nel mare i pensieri dolorosi, quelli che le davano quell’espressione
così malinconica.
Discretamente stetti a fissarla,
mentre il mare le parlava, raccontandole i suoi segreti. E io lo invidiavo.
La lasciai lì. Non mi aveva nemmeno
visto tanto era assorta.
Tornai alla macchina e mi diressi
all’Hotel.
Comodamente lasciai la MG al garage ed
entrai nella hall.
Mi chiesero se volevo una camera con
vista mare o vista sul campo da tennis. Optai per il mare, naturalmente, anche
se adoravo il rumore che facevano le palline da tennis. Mi conciliava il sonno.
Ero ancora in tempo per la cena e
prenotai un tavolo lungo i bordi della piscina.
Dopo mangiato salii in camera, disfeci
le valige, felice della scelta fatta.
Ma non facevo che pensare a lei.
Byron mi era vicino, lo sentivo. Avrei
quasi voluto parlargli, chiedergli un consiglio, se solo avessi saputo un po’ meglio
l’inglese!
Mi feci una doccia e con addosso l’accappatoio
andai nel terrazzino a fumare il sigaro. Ordinai nel frattempo un cognac.
L’albergo era immerso nel silenzio, e
non vidi nessuno affacciato sulla piscina.
Bussarono alla porta e mi portarono
quello che avevo ordinato.
Quando tornai fuori, vidi non lontano,
la stessa donna in camicia da notte bianca e lunga fino a terra, che sul suo
balconcino fumava una sigaretta. Dalla testa ai piedi emanava una luce che
sembrava fare impallidire la luna.
Questa volta mi notò. Se era già bella
con quell’aria malinconica, quando mi mostrò il suo sorriso, pensai che fosse
la Venere che aveva dato il nome a questo posto.
La vidi rientrare in camera, dopo aver
finito la sigaretta.
Mi prese la voglia di non lasciarmela
sfuggire, questa volta.
Uscii dalla camera e mi diressi nel
corridoio. Una porta, poco distante dalla mia camera, era semiaperta.
Mi feci coraggio ed entrai.
Lei era lì ad aspettarmi, il suo bel
corpo avvolto di seta, gli occhi dallo sguardo torbido e sensuale. Tutta la
malinconia era sparita.
Le sfiorai le labbra simili a una
rosa, ma lei premette le sue avidamente sulle mie e mi fece assaporare la sua
lingua guizzante e instancabile.
Si distese sul letto dopo aver fatto
scivolare la veste da notte e mi offrì il suo corpo come una Dea dell’amore.
Mentre la penetravo, pensavo alle
mille parole che le avrei dedicato. Prima fra tutte” Amore…”
Rimasi a dormire al suo fianco e
quando si svegliò, la prima cosa che fece fu di sorridermi, sapendo che era
ancora più bella quando lo faceva.
Poi, mi porse il libro che stava
leggendo. Era il mio ultimo libro di poesie intitolato “D.come Dea”. Voleva che
glielo autografassi.
Mi aveva riconosciuto dalla foto
all’interno del libro.
“A Venere nata dal mare, dedico la
spuma delle mie onde”.
Facemmo di nuovo l’amore e quando
tornai in camera, mi misi freneticamente a scrivere. Per lei.
Mi feci portare la colazione in camera
e il tempo passava felice di avere trovato la mia Venere/ Musa.
Mi accorsi che era quasi sera, vidi il
golfo illuminarsi, le navi entrare in porto, scivolando sull’acqua scura, la
torre in mezzo al mare era rifugio di gabbiani.
Avevo voglia di vederla e bussai alla
sua camera. Ma non ebbi risposta.
Allora la chiamai col telefono interno,
ma ancora nessuna risposta.
Mi prese il panico. Scesi nella hall e
chiesi all’impiegata se sapeva dove era la signora della camera numero 220.
La ragazza mi rispose che nessuno era
alloggiato lì.
“Non è possibile. C’era una donna
bionda ieri sera, abbiamo perfino…”
Mi fermai qui, sentivo che stavo
facendo la figura del cretino.
Ritornai nella mia stanza. Passando
davanti alla “sua” camera, vidi che era semi aperta. Entrai e mi parve di
sentire un profumo di donna, di quella misteriosa donna.
Uscii nel terrazzino e sul tavolino
riconobbi il mio libro di poesie con la dedica “A Venere nata…”
Rimasi ancora qualche giorno,
scrivendo poesie per quella Venere che forse non era mai esistita.
Quando partii, mi regalarono un piatto
di ceramica chiamato “Buon Ricordo”. C’era incisa una poesia :
…
Essi non sanno che ti
ho conosciuta,
Che ti ho conosciuta troppo bene:
A lungo a lungo avrò di te un rimpianto
Troppo profondo a dirsi.
C'incontrammo in segreto: in silenzio
Mi dolgo che il tuo cuore
Possa avermi scordato,
Tradito la tua anima.
Se dovessi incontrarti
Dopo lunghi anni,
Come salutarti?
Con silenzio e con le lacrime
Che ti ho conosciuta troppo bene:
A lungo a lungo avrò di te un rimpianto
Troppo profondo a dirsi.
C'incontrammo in segreto: in silenzio
Mi dolgo che il tuo cuore
Possa avermi scordato,
Tradito la tua anima.
Se dovessi incontrarti
Dopo lunghi anni,
Come salutarti?
Con silenzio e con le lacrime
George Byron
E
la chiesa di S.Pietro, dipinta sullo sfondo, era sempre aggrappata alle grigie
e azzurre rocce.
Daria D.
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