07 ottobre, 2012

"Il Porto di Venere", racconto di Daria D.


La Nascita di Venere, Sandro Botticelli

Arrivai quasi al tramonto con la mia vecchia MG azzurra.
Avevo deciso di lasciare Milano per passare qualche giorno in un posto dove non ero mai stato: Porto Venere, sulla costa ligure.
Dopo avere attraversato la città della Spezia, avevo guidato lungo la strada costiera che partiva dal porto e da cui si vedevano le navi militari, i cantieri, le raffinerie, le gru, immersi nella magnifica natura del golfo. Era chiamato il Golfo dei Poeti, e per me, poeta, non poteva che essere di buon auspicio. Sapevo di Byron e della grotta che gli avevano dedicato, e questo mi aveva incuriosito e, devo confessare, anche spinto alla  ricerca di una nuova ispirazione e di quel filo creativo che si era spezzato dopo un rapporto appena finito.
L’amore non pensavo più di ritrovarlo, era stato così forte quello che avevo vissuto, che mi sarei accontentato di una Musa ispiratrice, com’era accaduto al poetico Lord che, si dice, nuotava da Lerici fino a qui per incontrarla e dedicarle i suoi versi.
Le donne belle e sensibili, un po’ angeli e un po’ demoni, erano la mia passione e a loro dedicavo i miei sonetti come un poeta del Dolce Stil Nuovo. Qui, più che altrove, mi sarei sentito un gabbiano sulle ali della fantasia.
La strada era stretta, mi lasciavo alle spalle tutti i borghi marinai senza vederne la fine che sembrava sempre dietro all’ennesima curva. Il mare era calmo e delicatamente tinto di rosso.
L’ultimo paese fu Le Grazie, e se non avessi avuto l’altra meta in testa, forse mi sarei fermato, ma davanti a Venere quale uomo potrebbe resistere?
La strada, dopo circa dodici chilometri in salita, sul punto più alto curvava a destra e scendeva diventando a senso unico.
Quasi persi il controllo della mia già instabile MG, quando mi si presentò davanti il più bel sogno ad occhi aperti che avessi mai fatto.
Una chiesa sulle ultime propaggini del paese era protesa come polena verso l’orizzonte, da una parte e su un canale di mare stretto da un’isola, dall’altra
Dovetti fermarmi su un belvedere e pizzicarmi un braccio, anche se da quel sogno non avrei mai voluto risvegliarmi.
Ripresi il volante, e mi lasciai guidare dalla macchina, felice, pieno di aspettative e ancora in trance.
 Gli ulivi mi diedero il benvenuto, le buganvillee coloravano le case che erano già a colori vivaci.
Mi trovai poco dopo a sterzare a sinistra, superando alla mia destra l’intero paese che languidamente si affidava alla notte che avanzava.

Parcheggiai l’auto, lasciando le valige nel bagagliaio e decisi di sgranchirmi le gambe e magari chiedere informazioni ai locali su qualche albergo dove dormire.
Era metà maggio, e ancora non c’era quella folla rumorosa e tutto sommato distratta che invade, come se non ne potesse fare a meno, i luoghi più remoti e solitari. Mi piacque così, senza gente, fatta eccezione per i residenti che si distinguevano pur essendo una cosa sola con il paesaggio.
Sulle panchine gli anziani che discutevano sembravano giovanissimi, con le loro belle facce segnate dal sole e i cappelli da marinaio, consunti, ma di grande effetto. La loro cadenza ligure mi giungeva all’orecchio, e li sentivo parlare del tempo, della pesca e di politica.
Mi avviai lungo la passeggiata, la calata, com’era chiamata, sbirciando i pescherecci da un lato e i ristoranti e i bar dall’altro.
Come sudditi nelle loro divise gialle, rosa, rosse, verde, le case si affacciavano sul mare, adorne di fiori, di biancheria e di reti da pesca.
Avevo voglia di sedermi, ma non ancora di cenare, nonostante un profumo di pesto mi giungesse alle narici ricordandomi l’esistenza di questa straordinaria salsa.
Ovunque c’erano gatti che sembravano i veri padroni del paese. Uno grigio con gli occhi gialli si strusciò nei pantaloni e mi accompagnò al bar, dove decisi di fermarmi a bere qualcosa. O forse lo decise lui.
Le sedie erano a colori vivaci e a differenza degli altri locali, aveva un’ampia terrazza proprio sul mare. Mi sedetti e mi posi in modo da vedere la chiesa che da lì sembrava emergere dal mare, con quel colore grigiastro così simile alle rocce. Mi domandai che effetto avrebbe fatto vederla da un’altra prospettiva.  Si sarebbe immersa nel mare o avrebbe volato come gabbiano per poi posarsi sulle rocce della grotta dedicata al famoso poeta?
Credevo di essere lì da solo, ma quando girai la testa, seduta a un altro tavolino, c’era una donna che sorseggiava un aperitivo e leggeva un libro.
Era molto bella, ma mi parve di intravvedere della malinconia in quei suoi occhi che per un attimo alzò dalle pagine per incrociare i miei.
Erano azzurri, profondi e dolcissimi.
Non sapevo se guardare lei o la chiesa. Allora decisi di cambiare tavolino per averli entrambi sotto gli occhi.
I pescherecci tornavano in porto, virando nel canale le loro prue, trascinando le reti cariche di pesci. Qualche nuotatore pigramente andava su e giù lungo la riva. Un gabbiano mi si posò sul tavolino e sfacciatamente cominciò a fissarmi, curiosando nei miei pensieri.
Al cameriere, dopo avere ordinato un bicchiere di Vermentino, chiesi informazioni sugli alberghi del posto. Mi disse che alcuni erano chiusi per lavori, e che se avevo la macchina, avrei sicuramente desiderato parcheggiarla al sicuro e senza troppi problemi.  Mi diede il nome di un Hotel a circa un chilometro, facilmente raggiungibile a piedi camminando lungo la bella passeggiata.
Ebbi la sensazione che la mia vicina stesse ascoltando la conversazione e avrei quasi voluto chiedere a lei un consiglio, ma aveva l’aria di una straniera, e la lasciai alla sua lettura.
L’aria era ancora tiepida, anche se il sole era calato, lasciando le Alpi Apuane che si vedevano dall’altra parte del golfo ombreggiarsi di viola.
A un certo punto lei si alzò e con un leggero sbatter di ciglia a mo’ di saluto, s’incamminò verso la chiesa. Era elegante, le gambe erano perfette, leggermente abbronzate, due adorabili natiche fasciate da una gonna di panno bianco, un cardigan le copriva le belle spalle da nuotatrice, i capelli erano ondulati, del color della luna.

Rimasi solo con il gabbiano il quale sembrava rimproverarmi per averla lasciata andare via.
Decisi di seguire il consiglio del cameriere e di prendere alloggio all’albergo consigliatomi, ma prima volli esplorare ancora un po’.
Alla fine di una scalinata mi trovai su un piazzale che portava alla chiesa e alla grotta di Byron.
Mi fermai e lessi l’iscrizione all’entrata, dove c’era un piccolo cancello. Mi sembrò di essere salito sul palcoscenico di un’opera, e mi aspettavo che prima o poi arrivasse il vascello fantasma dell’Olandese volante o meglio, del nostro Poeta.  Le rocce erano scure e disposte ad anfiteatro, grandi lastroni di roccia s’immergevano nel mare, il tutto dominato da un piccolo cimitero sulla collina e dalla chiesa che brillava di stelle.
Nell’oscurità distinsi una figura vestita di bianco appoggiata alla ringhiera che guardava verso il mare aperto. Era la donna del bar. La mia Musa.    
Le onde s’infrangevano e ritornavano indietro con una regolarità che aumentava di forza sempre un po’ di più. Altri suoni non si udivano.  
Anche in questa circostanza avrei voluto rivolgerle la parola, ma sentivo che se l’avessi fatto avrei fermato quel processo che mi sembrava di percepire nella sua mente, di lasciare affogare nel mare i pensieri dolorosi, quelli che le davano quell’espressione così malinconica.
Discretamente stetti a fissarla, mentre il mare le parlava, raccontandole i suoi segreti. E io lo invidiavo.
La lasciai lì. Non mi aveva nemmeno visto tanto era assorta.
Tornai alla macchina e mi diressi all’Hotel.
Comodamente lasciai la MG al garage ed entrai nella hall.
Mi chiesero se volevo una camera con vista mare o vista sul campo da tennis. Optai per il mare, naturalmente, anche se adoravo il rumore che facevano le palline da tennis. Mi conciliava il sonno.
Ero ancora in tempo per la cena e prenotai un tavolo lungo i bordi della piscina.
Dopo mangiato salii in camera, disfeci le valige, felice della scelta fatta.
Ma non facevo che pensare a lei.
Byron mi era vicino, lo sentivo. Avrei quasi voluto parlargli, chiedergli un consiglio, se solo avessi saputo un po’ meglio l’inglese!
Mi feci una doccia e con addosso l’accappatoio andai nel terrazzino a fumare il sigaro. Ordinai nel frattempo un cognac.
L’albergo era immerso nel silenzio, e non vidi nessuno affacciato sulla piscina.
Bussarono alla porta e mi portarono quello che avevo ordinato.
Quando tornai fuori, vidi non lontano, la stessa donna in camicia da notte bianca e lunga fino a terra, che sul suo balconcino fumava una sigaretta. Dalla testa ai piedi emanava una luce che sembrava fare impallidire la luna.
Questa volta mi notò. Se era già bella con quell’aria malinconica, quando mi mostrò il suo sorriso, pensai che fosse la Venere che aveva dato il nome a questo posto.
La vidi rientrare in camera, dopo aver finito la sigaretta.
Mi prese la voglia di non lasciarmela sfuggire, questa volta.
Uscii dalla camera e mi diressi nel corridoio. Una porta, poco distante dalla mia camera, era semiaperta.
Mi feci coraggio ed entrai.
Lei era lì ad aspettarmi, il suo bel corpo avvolto di seta, gli occhi dallo sguardo torbido e sensuale. Tutta la malinconia era sparita.

Le sfiorai le labbra simili a una rosa, ma lei premette le sue avidamente sulle mie e mi fece assaporare la sua lingua guizzante e instancabile.
Si distese sul letto dopo aver fatto scivolare la veste da notte e mi offrì il suo corpo come una Dea dell’amore.
Mentre la penetravo, pensavo alle mille parole che le avrei dedicato. Prima fra tutte” Amore…”
Rimasi a dormire al suo fianco e quando si svegliò, la prima cosa che fece fu di sorridermi, sapendo che era ancora più bella quando lo faceva.
Poi, mi porse il libro che stava leggendo. Era il mio ultimo libro di poesie intitolato “D.come Dea”. Voleva che glielo autografassi.
Mi aveva riconosciuto dalla foto all’interno del libro.

“A Venere nata dal mare, dedico la spuma delle mie onde”.

Facemmo di nuovo l’amore e quando tornai in camera, mi misi freneticamente a scrivere. Per lei.
Mi feci portare la colazione in camera e il tempo passava felice di avere trovato la mia Venere/ Musa.
Mi accorsi che era quasi sera, vidi il golfo illuminarsi, le navi entrare in porto, scivolando sull’acqua scura, la torre in mezzo al mare era rifugio di gabbiani.
Avevo voglia di vederla e bussai alla sua camera. Ma non ebbi risposta.
Allora la chiamai col telefono interno, ma ancora nessuna risposta.
Mi prese il panico. Scesi nella hall e chiesi all’impiegata se sapeva dove era la signora della camera numero 220.
La ragazza mi rispose che nessuno era alloggiato lì.
“Non è possibile. C’era una donna bionda ieri sera, abbiamo perfino…”
Mi fermai qui, sentivo che stavo facendo la figura del cretino.
Ritornai nella mia stanza. Passando davanti alla “sua” camera, vidi che era semi aperta. Entrai e mi parve di sentire un profumo di donna, di quella misteriosa donna.
Uscii nel terrazzino e sul tavolino riconobbi il mio libro di poesie con la dedica “A Venere nata…”

Rimasi ancora qualche giorno, scrivendo poesie per quella Venere che forse non era mai esistita.
Quando partii, mi regalarono un piatto di ceramica chiamato “Buon Ricordo”. C’era incisa una poesia :
Essi non sanno che ti ho conosciuta,
Che ti ho conosciuta troppo bene:
A lungo a lungo avrò di te un rimpianto
Troppo profondo a dirsi.

C'incontrammo in segreto: in silenzio
Mi dolgo che il tuo cuore
Possa avermi scordato,
Tradito la tua anima.

Se dovessi incontrarti
Dopo lunghi anni,
Come salutarti?
Con silenzio e con le lacrime

George Byron

E la chiesa di S.Pietro, dipinta sullo sfondo, era sempre aggrappata alle grigie e azzurre rocce. 

Daria D.

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