William Friedkin, sulla carta, sarebbe
uno che ormai non ha davvero più nulla da dimostrare. È un regista che da
perlomeno un paio di decenni, o anche più, è presente nelle imprevedibili liste
dei cinefili; e il suo nome viene spesse volte tirato in causa sia dalla
critica più tradizionalista, sia da quella un po’ più fuori dagli schemi. Senza
contare perlomeno un (bel) film rimasto nell’immaginario nazionalpopolare come L’esorcista (1973), e un altro considerato
punto di rottura e riscrittura del genere poliziesco (Vivere e morire a Los Angeles, 1985). Dunque, cosa ci si dovrebbe
aspettare da un cineasta che va per gli ottanta e che negli ultimi anni ha
girato due film come The Hunted
(2003) e Bug (2006)? Che, per carità,
avranno pure un po’ diviso pubblico e critica, ma senza dubbio, almeno per chi
scrive, rappresentano l’ulteriore riconferma di un Maestro del Cinema
americano. Killer Joe (2011), nelle
sale italiane dallo scorso fine settimana, è possibilmente ancora più riuscito
degli ultimi due suoi lavori.
Anche il lettore meno attento avrà
notato l’anno “2011” tra parentesi. Per chi non lo sapesse, il film è stato
presentato a Venezia nel settembre dell’anno scorso, ma è uscito nelle sale
americane solo nel luglio di quest’anno, e in Italia, per fortuna, pochi giorni
or sono. Il “per fortuna” è dovuto ad un
semplice fatto: con un’uscita estiva italiana, la distribuzione avrebbe potuto
essere ancor più catastrofica di quella già di per sé piuttosto ridicola
riservatagli in autunno. Al solito, ci facciamo sempre riconoscere. Ma lasciamo
fare certi aspetti, ché tanto si rischia di ritornare sempre sui soliti punti
ed arrabbiarsi ogni volta allo stesso modo. Meglio parlare del film.
Siamo in Texas, dove uno spacciatore
giovane e un po’ imbranato di nome Chris Smith deve procurarsi una discreta
somma di denaro, per darla, chiaramente, a dei pesci più grossi di lui. Il
ragazzo non sa proprio dove andare a sbattere la testa, e visto il rapporto già
non idilliaco con la madre, gli balena in testa l’idea di ucciderla,
rivolgendosi ad un killer professionista, per poi mettersi in tasca i soldi
dell’assicurazione sulla vita. Niente di più semplice, no? Anche Ansel, suo
padre, divorziato dalla moglie, e che ora vive insieme all’altra figlia Dottie
e a Sharla, la donna con cui si è risposato, viene sin da subito coinvolto
nella vicenda: in un primo momento, è un po’ titubante, ma poi accetta anche
lui di prendere parte al surreale e diabolico piano del figlio. Ed ecco che poi
entra in scena Joe, poliziotto (detective, per l’esattezza) di professione, ma
che come secondo lavoro fa il killer professionista. Insomma, colui che ammazza
la gente per soldi. Una figura un po’ surreale e controversa di sbirro – cow
boy che si abbatte come un fulmine a ciel sereno in questa famiglia già di per
sé problematica, riuscendo ad incasinare ancor di più la situazione.
I soldi a disposizione di Chris non
sono molti, e dunque Joe decide di prendersi l’adolescente e vergine Dottie come
caparra, facendola diventare la sua partner sessuale. Da qui in avanti, gli
scenari che si apriranno dinnanzi allo spettatore saranno molteplici: tutti
fondamentalmente marci, più di quel che ci si aspetta. E raccontarli non è
certo compito dell’articolo che state leggendo, altrimenti buona parte del
succo della pellicola andrebbe, in qualche modo, a farsi benedire.
Quella che Friedkin ci regala è
un’altra opera di Cinema con la C maiuscola, dalla regia ferma, quadrata, che
gioca con il dettaglio e si concentra sui corpi, regalando fantastici primi
piani impreziositi dall’ottima fotografia curata da Caleb Deschanel (padre di
Zooey). Una sceneggiatura solida e senza fronzoli, firmata da Tracy Letts –
autrice del romanzo da cui il film è tratto, già collaboratore del regista in Bug -, con sequenze e dialoghi
alle volte surreali e sboccati al punto giusto. Il tutto, impreziosito
da un cast all’altezza, che vede Matthew McConaughey, un discreto attore spesso
fuori parte o usato per film di bassa lega, nelle vesti di Joe, in una delle
migliori interpretazioni della sua carriera. Se la cava anche Emile Hirsch
(protagonista di Into The Wild), che
impersona Chris, il ragazzo che vuole ammazzare la madre. Conferma di grande
talento e bellezza da parte della giovane Juno Temple (Greenberg, The Dark Knight
Rises): suo, il personaggio della problematica ragazzina Dottie. Un plauso,
anche per la coppia Ansel e Sharla, padre e matrigna di Chirs e Dottie, che
hanno rispettivamente i volti del sempre ottimo Thomas Hauden Church (Spider Man 3, Sideways, La mia vita è uno
zoo) e della bella, qui un po’ trasfigurata da un trucco pensante e
volgare, Gina Gershon.
Nell’ultimo lavoro del regista
americano, si ha la sensazione di essere immediatamente catapultati in questo
universo texano sporco e grottesco, che pullula di bifolchi e subumani, di un
sole che spacca le pietre e di piogge incessanti; di oscenità che sono sotto
gli occhi di tutti; e di altre, completamente nascoste. Si guarda Killer Joe e ci si sente un po’ a disagio:
ci sembra di essere lì assieme ai protagonisti, di respirare la loro stessa
putrida aria. Ci si alza dalla poltroncina del cinema e ci sente più cattivi e
allo stesso tempo più umani, perché è difficile fraternizzare con la disumanità
dei personaggi protagonisti. Un film che senz’altro avrebbe meritato più spazio
nelle nostre sale, e che consigliamo caldamente.
Marco Renzi
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