Milano,
Campo Teatrale. Dal 25 al 27 ottobre e dal 2 al 4 novembre 2012
Entriamo in sala e César
Brie è già sul palco che ci sta aspettando, seduto su una sedia, nel mezzo di
un vuoto che come sempre riuscirà a poco a poco a riempirci con le parole, i
gesti, le immagini che susciterà in ognuno di noi, grazie alla sua capacità di
essere, di sentire e di credere in quello che dice e che fa.
Ci segue con lo sguardo
mentre prendiamo posto, i suoi occhi sono come due lucciole azzurre che volano
per la sala, facciamo piano per non disturbarlo, sembra assorto e concentrato
ma nello stesso tempo vigile, su quello che sta accadendo intorno. Come fanno i
gatti.
Noto che si è fatto
crescere i baffi e il codino, ha lasciato il posto a una criniera sale e pepe che
durante lo spettacolo verrà scompigliata e si bagnerà di sudore, come il suo viso, sensibile e bello, perché
ogni movimento, anche impercettibile, significa qualcosa. Non è messo lì in
bella mostra per chiederci applausi, anche se comunque li avrà,
inevitabilmente.
L’unica nota di
colore è una civettuola cravatta lilla come il fazzoletto che porta nel
taschino. Io indosso una maglietta viola... Allora mi viene in mente quando si
diceva e spero sia ormai una maldicenza di altri tempi, che è un colore tabu in
teatro, e sorrido.
Cosa c’entra un uomo
di 120 chili, Ciccio Méndez, con quell’accento lilla sul corpo immenso, innamorato
perduto ma cosciente di Samantha, del jazz e del cibo, con César Brie?
Chi conosce la storia di quest’artista, nato
in Argentina e fuggito per ragioni politiche negli anni settanta, che ha
fondato il Teatro delle Ande in Bolivia e portato sulle scene mondiali l’Iliade
con quegli attori che hanno lavorato con lui per due anni, potrebbe pensare che
Brie si sia allontanato dalle opere “impegnate”. Rivedendo con immenso piacere e interesse il
DVD allegato al libro “L’Iliade del Teatro de Los Andes”, edito da Titivillus
nel 2011, dieci anni dopo il successo internazionale della messa in scena, mi
vengono in mente le sue parole “l’opera d’arte non deve essere classificata
come sociale, o impegnata o politica, ma come universale”.
Ecco allora che Ciccio,
ballonzolando le sue carni, comincia a raccontare del suo amore per una donna
ignara del misterioso ammiratore, e che cercherà di incontrare a una festa,
spacciandosi per un suonatore di contrabbasso. Ma Ciccio tutto quello che potrà
fare, sarà imitare con la sua voce cavernosa il suono dello strumento, aggirandosi
per la festa in cerca di cibo, per non perdere l’abitudine.
Il nostro eroe è un solitario, un timido, non
ha il coraggio di dichiararsi a Samantha, forse per la vergogna del suo aspetto
fisico. Ma quando la vede indossare un fazzolettino al collo e un nastro sui
capelli dello stesso colore lilla, quasi s’illude che il destino ci abbia messo
lo zampino. Allora comincia a sperare, ma tutto dura il tempo di una festa, poi
Ciccio ritorna l’uomo emarginato che trova nel cibo e nella musica il rifugio
alle sue insicurezze, paure e convinzioni. Ciccio continuerà a mangiare, lasciando
Samantha nelle braccia di altri ammiratori, belli e alla moda.
L’ultima immagine è
il suo grande sedere che si muove al suon della musica mentre addenta un panino
extra size.
Ciccio è un
personaggio universale, con la sua grassezza, il suo male di vivere, le
sofferenze d’amore, le sue passioni. Ma
se fosse invece più felice di tanti altri che seguono mode e ricette per
cercare la sicurezza di appartenere a un branco, omologati e privi di
personalità e di coraggio nel mostrarsi per
quello che sono, anche con le loro bassezze, bruttezze e paure?
Ciccio non ha
nazionalità, è senza tempo e luogo, anche se Brie fa dei riferimenti al centro
e Sud America, come la musica e la figura dei Mariachi, chiedendo però al
pubblico se sa chi sono. Infatti Brie instaura con noi spettatori un dialogo,
ne sceglie qualcuno, compresa me (!) come la “indifferente e ignara” Samantha,
e dal palcoscenico l’azione passa in sala e il calore e il divertimento e
l’ammirazione per quest’artista, umile e ricchissimo insieme, cresce e si rinsalda
in chi lo segue nei suoi sempre diversi spettacoli o sorprende chi lo vede per
la prima volta.
Brie potrebbe
raccontarci qualsiasi cosa, o potrebbe passare tutto il tempo seduto sulla
sedia, senza apparente scenografia, azione e parole, che non saremmo capaci di
togliergli gli occhi di dosso per un momento. E immaginare castelli, onde,
alberi, grassoni, sentire il profumo del cibo, vedere belle donne, campesino
trucidati, preti maledetti, uomini crudeli, madri in lacrime, terre lontane e
vicine, con lui è facile, perché le sue parole non si perdono nel vuoto, ma ci
toccano profondamente, lasciandoci nella convinzione che una scena
apparentemente vuota, prende vita solo se chi ci sta sopra crede fermamente
nella missione universale, catartica e “divina” della creazione artistica.
Quel tocco di lilla era
come un fiore, per alcuni un semplice fiore di campo, per altri un’orchidea. Ma
che importanza ha se tutti ne abbiamo sentito il profumo e visto la bellezza
anche su una montagna di grasso?
Grazie César Brie per
alimentare ogni volta la nostra capacità immaginativa, per farci pensare e
anche divertire, per mandare segnali ai nostri sensi, a volte dormienti sotto montagne
di hamburger e di tecnologia.
E alla fine ha
chiamato anche noi a ricevere gli applausi…
Che onore!
Daria D.
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