28 novembre, 2012

"Black and white souls", racconto di Daria D.



Henri Cartier-Bresson, New York ,1947
“Ehi gatto nero!  Che hai da guardarmi?”.
“Perché, sei superstizioso?  Anche tu sei nero…o sbaglio?”.
“Ci vedi bene, gattino. Abbiamo qualcosa in comune allora e comunque no, non sono superstizioso. Molta gente lo è e per questo ci evitano.  Con te toccano ferro, a me sbattono la porta in faccia quando non fanno di peggio”.
“Mi sa che abbiamo un’altra cosa in comune. La fame”.
“E’ sì. Io sono quattro giorni che non mangio e tu?”.
“Solo due, da quando è morta la mia padrona. Con lei mangiavo tre volte al giorno, mi lasciava dormire sul letto, acciambellarmi sulle sue ginocchia, mi carezzava il pelo e mi raccontava di sé. Ah che bella  vita facevo! Le volevo proprio bene”.
“Ci credo! Ce l’hai un nome?”.
“Mi chiamo Salomon”.
“Che nome pomposo per un microbo come te. Piacere, io sono Jefferson”.  E gli fece un cenno con la mano in segno di saluto.
“Pure tu non scherzi. Presidente degli  Stati Uniti!  Salomon era il nome del figlio della mia padrona.  E’ morto in guerra. Piangeva tutti i giorni, poveretta. Una brutta guerra quella di là dall’oceano, vero Jefferson? Almeno così ho sentito dire da lei”.
“Sì micetto… io l’ho fatta. Ho combattuto per il mio paese, ne ho liberati altri, al ritorno qualche medaglia, un po’ di bei discorsi e poi si sono ricordati che il colore della mia pelle era superstizioso…”.
 “Prima di andare in guerra che facevi?”.
“Suonavo il sax. La musica era la mia vita. Non m’interessavano i soldi, volevo solo che la gente sentisse la mia musica. Quando avevo lo strumento in mano, mi rispettavano”.
“E quando sei tornato, non hai ricominciato?”.
“Ero riuscito a comprarmi un sax, suonavo con un gruppo, ma poi ho dovuto impegnarlo per pagarmi da mangiare. E ora non so come riscattarlo”.
Jefferson andava spesso Uptown con il suo sax, si sedeva per terra, rovesciava il cappello e se qualcuno gli dava dei penny, era ok, altrimenti, se ne tornava a Harlem a fare qualche jam session con gli amici. Suonava così bene che si fermavano anche i bianchi ricchi, facendo cascare qualche moneta nel cappello, altri passavano frettolosi per recarsi agli uffici, nella metropolitana, nei caffè.  Altri inciampavano tra le sue gambe ma di certo non si scusavano.
Altri ancora lo chiamavano “negro pidocchioso”, “fannullone” o con altri epiteti più pesanti.
“Ma che ci fai qui, Jefferson, seduto in questo vicolo?”.
“Sei curioso micetto. Ti dirò, non ho casa, non ho nulla, ho perso anche gli amici, al rifugio ci vado solo per dormire, poi ti fanno smammare durante il giorno. E se non rispetti gli orari, non ti danno nemmeno da mangiare. Come è successo a me. Ogni tanto vengo qua, ma consumo anche altri marciapiedi”.
“Pensi che potrei andarci anch’io, al rifugio per senza tetto?”.
“Puoi provarci, è a solo qualche blocco di distanza da qui”.
“Io non mi sono mai allontanato, non ne avevo bisogno, però ora per riempirmi lo stomaco sarei disposto a farlo”.
Jefferson aveva lasciato il suo sax al Monte dei Pegni, dove un ebreo barbuto e con un occhio solo se lo era preso insieme a scarpe, orologi, dentiere, radio, piatti, medaglie degli altri disperati come lui e come anche lo strozzino.
Almeno aveva ottenuto che lo mettesse  in vetrina, per poterlo guardare, fantasticando di riprenderselo al più presto. Era così che perdeva il rancio al rifugio per i senza tetto, standosene ore a fissarlo. Una notte gli era venuta la tentazione di spaccare il vetro e di portarselo via, ma poi ci aveva rinunciato. Cosa avrebbe guadagnato, se non la galera, perdendo così l’unica cosa che gli era rimasta, la libertà?
“Vorresti essere bianco, Jefferson?”.
“La mia anima è bianca, micetto, è che non si vede. Cosa credi, che molti bianchi non abbiano un’anima nera? È che quel che conta è ciò che balza agli occhi, ci si ferma alla superficie delle cose. Se gli uomini sapessero andare al di là dell’apparenza, si renderebbero conto che la sostanza è la stessa. Siamo tutti nati allo stesso modo”.
“Però sono sicuro che quando suoni sei diverso dagli altri”.
“Micetto filosofo. In effetti quando suonavo mi sentivo più in alto degli altri, migliore, come se la forza della musica e dell’arte fosse in grado di cancellare quel peccato originario che era solo il bisogno umano di libertà e di ribellione verso un’autorità che non avevamo scelto noi”.
La New York di quei vicoli stretti e alti, aveva il fascino indescrivibile della bellezza priva di orpelli e volgarità, senza poterle dare un’età precisa , perché non aveva  un passato, ma solo un futuro di sperimentazione, di successi, di lotte, di democrazia, di contraddizioni, di speranze.
“Jefferson…mi porteresti con te al rifugio?”.
“Farò di meglio…quando mi ricomprerò un sax nuovo ti porterò in giro con me”.
“Grazie amico. Vedrai che ti sarò fedele.  Guarda un po’ là, alla tua sinistra…non girarti…con la coda dell’ occhio”.
“Non è la prima volta che lo vedo quel fotografo…chissà cosa ci trova di interessante in quest’ angolo di New York…potrebbe andarsene sulla cinquantaquattresima strada e invece si interessa a due poveri diavoli come noi ”.
“Chissà…magari tra settanta, ottant' anni la gente guarderà la nostra foto e si porrà lo stesso quesito e poi si domanderà che fine avranno fatto quei due poveri diavoli. Sai, lui mica ci fotografa il futuro, cattura questo preciso momento e lo fa diventare eterno”.
“Divertente diventare immortali per “colpa” di una fotografia”.
“Parla per te Jefferson, io ho già sette vite. Che facciamo, sorridiamo? Se dico cheese potrei cadere svenuto al solo pensiero”.
“Anch’io Salomon…ignoriamolo, allora, credo che sia quello che vuole”.

Daria D.

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