Francesca Proia e Danilo Conti, foto di Futura Ferrante |
Una piccola foto, quasi
formato tessera, su una pagina di giornale, insieme a tante altre, più grandi,
più importanti, ma anche più scontate, del primo piano di una donna dai lunghi
capelli biondi, la mano sinistra coperta da un guanto di pelle, il viso
nascosto dietro la testa dell’uomo che sta abbracciando. Sta piangendo? Oppure gli sta dicendo qualcosa? Si conoscono
già? Quale segreto li lega? Un’immagine
che si presta a tante interpretazioni, per questo quando l’ho vista, e ne sono
rimasta colpita, mi sono detta: cosa c’era prima e cosa ci sarà dopo? O tutto è
già in un presente assoluto che non ha bisogno di parole per comunicare e per
esistere, per farci sentire i respiri di quell’uomo e di quella donna, che ci
stanno raccontando una storia? La loro storia o la nostra storia?
D’impulso, come dice
il vocabolario: senza riflettere, d’istinto, ho deciso di andare al Festival Pulsi- corpi e suoni in tempo reale, giunta alla sua IX edizione e che si
è tenuta a Milano alla Triennale, Teatro dell’Arte dal 5 all’11 novembre, dopo
la premiere al Teatro Pim-off.
Il Festival è, come
ogni anno, organizzato dall’associazione TAKLA
che ha come filosofia il making arts,
arte intesa come un fiore che riesce a sbocciare anche nel deserto, e, infatti,
questo è il loro simbolo. Come mi dice il
simpatico ed eclettico Filippo Monico,
batterista e fondatore del gruppo nel 1998 con Cristina Negro, danzatrice e coreografa, il nome deriva da Taklamakan, un immenso deserto
dell’Asia centrale, come per dire che la forza dirompente dell’arte può creare
delle fessure, delle lacerazioni, dei pertugi, anche in terreni aridi e sterili
e poi portare le sue radici anche altrove. Come sta facendo appunto il gruppo Takla con il suo lavoro d’improvvisazione,
ricerca, sperimentazione, educazione, anche di coraggio, possiamo
tranquillamente dire, nel percorrere strade nuove e mai battute, per lasciarvi,
via via che il lavoro prosegue, i fiori della musica, della danza, del teatro,
della fotografia, il tutto all’insegna della pura improvvisazione.
Il festival ha come
tema centrale l’improvvisazione di corpi, musica e fotografia, in tempo reale.
Francesca Proia e Danilo Conti, foto di Futura Ferrante |
Che cosa significa
improvvisare? Significa non avere preconcetti e di conseguenza seguire gli im-pulsi
che ci arrivano da dentro e da fuori di noi. È vivere nell’attimo, dimenticando chi siamo, da dove veniamo e dove stiamo andando, ma solo
perché siamo lì, facendo del passato e del futuro un tutt’unico, ascoltando il
respiro di chi ci sta vicino, le note che escono da un sax, il fruscio del
vento, il battito degli altri cuori. È la libertà di lasciare il corpo
esprimersi senza pregiudizi, uno strumento diffondere note senza spartito, la
macchina fotografica cogliere l’istante di uno sguardo, come anche un respiro
trattenuto o un gesto che non si ripeterà più.
Improvvisare è una
forma d’arte che trova sul palcoscenico il suo spazio ideale. Ma Leonardo Delogu, attore e danzatore
del gruppo Strasse, ha strappato
l’improvvisazione allo spazio chiuso e l’ha fatta camminare per un anno,
facendola arrivare nelle agorà, nei parchi, nelle zone urbane dimenticate,
lavorando con un gruppo affiatato (lo stesso fiato, lo stesso respiro) e
bravissimo ma stasera l’ha riportata alle origini, dentro la struttura,
apparentemente chiusa, perché il teatro ha solo immaginarie pareti, del Teatro
dell’Arte di Milano.
A chiudere la serata
del 10 novembre è l’improvvisazione che conclude il viaggio di “Camminare nella
frana”, questo è il nome del workshop di
Delogu, e così dal buio del palcoscenico vediamo emergere, come d’incanto,
figure solitarie, che improvvisamente, seguendo un impulso, sentono il bisogno
di unirsi agli altri, per comunicare, per interagire, ma senza parole, solo con
gli sguardi, i gesti d’affetto o di rabbia, di ribellione o di tristezza. È una
matassa che si srotola e si arrotola all’unisono, senza strappi, fratture, o se
ci sono, ci penserà il movimento successivo a ricucire, a ridare armonia e
bellezza al tutto. Il silenzio a tratti è rotto da qualche interferenza
musicale o parlata che viene da un registratore, forse non ce ne sarebbe stato
bisogno, per non rovinare quell’atmosfera irreale.
La serata del 10
novembre era cominciata con un’improvvisazione della brava Silvia Bolognesi che per trenta minuti fa del suo contrabbasso il
veicolo per quelle parole che ci ripete come un mantra : Let the music take you. Note in assoluta libertà escono da quello
strumento che a volte sembra un violino, altre una chitarra rock, perfino un
tamburo, e non a caso Silvia le dedica a John
Tchicai, rappresentante, da poco scomparso, del free jazz. Silvia usa l’archetto
per suonare, ma non sempre, a volte percuote con i palmi la cassa armonica,o fa
muovere il contrabbasso secondo quello che sente in tempo reale, davanti a noi
spettatori taken by the music.
Daria Menichetti e Sara Leghissa, foto di Marco Davolio |
L’intermezzo comico Cronozuppa e altri rimbalzi un po’ ci
ricorda Buster Keaton, nella figura di
Edoardo Ricci che sbuca da una tenda di carta velina, dalla quale era
uscito poco prima un grosso e mansueto cane, improvvisando note libere con il
sax e il clarinetto basso, dandoci l’impressione di voler instaurare un dialogo
con Tuia Chierici che lavora “sotto
copertura” per proiettare immagini e luci, ma cui lei sembra non prestare orecchio, tutta presa dal suo lavoro. E allora
il musicista “pazzo” strappa la carta, se la mette sotto l’impermeabile, quasi la
ingoia, tocca freneticamente gli oggetti che sono sul tavolo, i più strani e
disparati e nello stesso tempo sa creare musica forte che ci prende e
sorprende.
Il mantra di Silvia Let the… non ci abbandona e continua con
Sguardi, il risultato eccellente di
due workshop tenuti dal fotografo Roberto
Masotti e Leonardo Delongu .
Sguardi che i fotografi in scena catturano all’istante dai corpi e dai suoni,
perché in scena ci sono attori e musicisti, fra cui lo stesso Filippo Monico, e poi Riccardo Luppi al sassofono e Edoardo Ricci al clarinetto e tutti improvvisano,
mentre le immagini scattate dai fotografi, vengono proiettate su un maxi schermo,
sotto lo sguardo attento ed esperto di
Roberto Masotti. Le macchine
fotografiche si muovono liberamente sul palcoscenico, perché a loro è affidato
il compito di lasciare, anche dopo che l’istante è passato, le immagini di
questa serata non-stop all’insegna di una libertà espressiva che è parte imprescindibile
non solo della creazione artistica ma anche della vita stessa.
Il gruppo Takla, imprevedibile e instancabile,
esiste per ricordarci che dove c’è improvvisazione c’è libertà e dove c’è
libertà non possono che sbocciare i fiori dell’arte, anche dove non ce lo
aspetteremmo mai.
Bravi!
Daria D.
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