21 novembre, 2012

"Papaveri sul davanzale", racconto di Daria D.


Vittorio Emanuele, Papaveri sul davanzale
Glieli aveva portati strappandoli dai campi della sua infanzia, un lungo viaggio senza sosta perché non morissero, non si era quasi mai fermato, la macchina viaggiava veloce, da sud a nord, divorata dal sole estivo, per arrivare da lei prima possibile, lassù, a Milano.
Come ogni giorno, sistemava il cavalletto sulla spiaggia affacciata sullo Ionio, e come ogni giorno trovava qualcosa di diverso nel paesaggio marino che lo circondava.
“Augusto, ma perché vai ogni mattina a dipingere lo stesso mare? Sono ottant’anni che abito qui e a me sembra sempre uguale” le diceva la nonna che lo vedeva partire indossando la casacca ogni giorno più macchiata, il cappello sempre più sbiadito, sempre più pennelli e tubetti schiacciati nella valigetta.
“Non ti basta averlo dipinto una volta?”
“Nonna, il mare cambia ogni momento, non è mai uguale, ha la sua vita, come noi… è lui che racconta, ma non lo fa con tutti, solo con quelli che lo amano. Quando lui stesso non vorrà più dirmi nulla, allora mi allontanerò e non lo dipingerò più. Dovrò cercare un altro mare….”
La casa era piena di quadri di marine, piccole, grandi, oli, tempere, il colore delle onde aveva tutte le tonalità dell’azzurro e del verde, il cielo era tempestoso, sereno, imbronciato, incorniciato dalle nuvole, dal sole estivo, dalla luce del tramonto ma nessun essere umano era mai entrato in quell’altezzosa solitudine.
La spiaggia, poco conosciuta, era frequentata da quelli che sembravano volersi nascondere alla sua vista, quasi timorosi di disturbare il suo lavoro e la sua concentrazione. 
Una mattina di agosto, davanti al cavalletto, aspettava che il mare gli parlasse, invece fu un’altra voce che sentì.
“Scusi, mi sa dire se posso camminare oltre il promontorio?”
Non si era accorto che alle sue spalle c’era una donna con un  cappello di paglia verde, un caftano bianco e occhi di una tonalità di azzurro che non gli era mai riuscito dipingere.  Nemmeno il rosa delle nuvole al tramonto era delicato come quello delle sue labbra.  La donna del mare…
“Sì sì … ed è anche molto bello … c’e’ un sentiero che sale sul crinale”.
“Grazie…magari ci vediamo quando torno indietro”.
“Buona passeggiata”.
Riprese il lavoro, ma il mare quel giorno era muto, e lui non riusciva a trovare il giusto colore per dipingere le onde. Si mise seduto sulla spiaggia e per la prima volta il suo pennello rimase immobile.
Non i suoi pensieri e il suo sguardo, però, che andavano continuamente verso la fine della spiaggia, con la speranza di vederla tornare.
Aprì l’ombrellone che si era portato, e si mise sotto, per ripararsi  dal sole del mezzogiorno, a mangiare della frutta.
Poi, si addormentò.
“Eccomi di ritorno. Grazie, è stata una passeggiata stupenda”
“Mi ero assopito…Oggi non ho combinato un granché.  Mi fa piacere rivederla. È di passaggio qui?”.
“Recito al teatro di Siracusa e mi sono presa qualche giorno di vacanza prima di cominciare”.
“Un’attrice… Beh… che altro poteva essere? E’ così bella”.
“Perché non viene a vedermi? Reciterò in “Medea”. Così magari dirà che sono anche brava”.
“Certamente…e…poi?”
“Poi cosa?”
“Si…volevo dire…dove abita…non mi sembra delle mie parti”.
“Abito quasi agli antipodi…a Milano”.
“Non ci sono mai stato. Però mi piacerebbe…”.
“Che cosa dipingerebbe senza il mare?”.
“Non posso mica dipingere solo lui…che dice?”.
Improvvisamente si rese conto, per la prima volta, che era pronto a dipingere qualcos’altro che non fosse il mare.
“E’ bella la sua terra… venendo ho visto distese di papaveri che sembravano invitarmi a fermarmi, a guardare il cielo, a stare con loro, senza pensare a nulla…ad abbandonare le tristezze, a dimenticarmi delle sofferenze…Quel rosso sembra macchiare di passione anche i cuori più duri… “.
E mentre parlava, le vide negli occhi quella tonalità di azzurro che aveva cercato tra i suoi colori, senza trovarla.
 Avrebbe voluto chiederle di fermarsi lì, di posare per lui, ma gli sembrò di tradire il mare e rimase in silenzio.
“Se vuole le lascio un biglietto per venerdì sera. Lei saprà sicuramente come arrivare al teatro”.
“Sì, certo. A proposito…mi chiamo Augusto”.
“Io Nina. Dica il mio nome al botteghino. A presto, allora”.
“A presto e grazie”.
Se ne andò come un gabbiano, leggero e silenzioso.
Tornò a casa, quel giorno, con una tela non finita.  La mattina dopo non andò alla spiaggia e nemmeno i giorni seguenti.
Il mare era diventato muto,  parlava il suo cuore, ora.
Nina, dopo le repliche, tornò a Milano, ma prima, passò una notte intera con Augusto.
Quella delle stelle cadenti.

 Suonò alla porta del suo appartamento, al nono piano di un palazzo signorile in centro città.
Glieli aveva portati strappandoli dai campi della sua infanzia, un lungo viaggio senza sosta perché non morissero, non si era quasi mai fermato, la macchina viaggiava veloce, da sud a nord, divorata dal sole estivo, per arrivare da lei il prima possibile, lassù, a Milano.
Era stata una sorpresa, non sapeva nemmeno se l’avrebbe trovata, ma ormai la decisione era stata presa, senza rimpianti, aveva bisogno di dipingere altri mari, di trovare altri colori alla sua tavolozza, di abbandonare una vita di cui sapeva tutto, per cominciarne un’altra, rischiando anche di perdere qualsiasi ispirazione, di dubitare del suo talento, di non trovare quello che cercava, insomma, di fallire. 
“Augusto! Che matto sei! E questi papaveri? Sono ancora freschi! Eppure sapevo che muoiono subito appena si colgono. Devono essere speciali”.
“Se morissero ora, almeno sarebbero felici di averti rivisto. Per me sarebbe uguale…”.
“Non ti mancherà la tua terra?”.
“Come può mancarci qualcosa che sta dentro di noi?”.
“Ho paura che qui di azzurro ce ne sia poco…molto grigio…invece…”.
“Ma io vedo un misto di viola e di rosa, di indaco, pennellate di giallo…”. Disse Augusto, attirato dalla luce che entrava dalla finestra aperta su Milano al tramonto.
Lei lo seguì tenendo tra le braccia i papaveri un po’ stanchi, desiderosi di riposo.
“E poi c’e’ anche dell’azzurro, di una tonalità che non ho mai visto prima…”.
Le prese i fiori dalle mani e li appoggiò sul davanzale, poi la strinse tra le braccia: era lei ora il suo nuovo mare, e aveva un colore che nessun altro sarebbe stato capace di dipingere, a parte lui.
I papaveri s’inebriarono dell’aria umida e dolce di Milano e si addormentarono per sempre, felici.

Daria D.









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