Forme uniche nella continuità dello spazio, Umberto Boccioni |
Provo un amore
smisurato, quasi patologico per le città, quelle grandi, e ancora più grandi,
quelle il cui cuore è fatto di milioni di cuori di tutte le razze, fedi e
opinioni, per tutto quello che rappresentano, per quello che possiedono ma soprattutto per quello che
non possiedono: la mediocrità e il gusto “per bene” della provincia, dove tutto
è, o almeno sembra, ordinato, preciso, “ a misura d’uomo”.
Ma l’uomo non deve
mai accontentarsi, deve spingersi oltre il tutto “per bene”, deve osare con
nuove tecnologie, materiali, altezze, misure,
progetti, deve ritornare a essere Lucifero, non nel senso cristiano di
creatura diabolica che ha osato sfidare Dio e quindi è stata punita ma in
quello “laico” della mitologia romana: portatore di luce.
Le città non devono farci paura, non dobbiamo allontanarcene perché ci convincono che altrove si stia meglio e che si possa vivere più a lungo, senza pericoli e tentazioni, caos e distrazioni, sovrappopolazione e mendicanti, stranieri e inquinamento. Vivere in città ci fortifica, ci rende più fit a sopravvivere, non interrompe la linea di sviluppo che comincia con la nascita, ci spinge a rispettare i nostri simili, a incontrarli ogni giorno, a condividere con loro i nostri sorrisi, le nostre preoccupazioni, a cercare il giusto spazio, che non deve invadere lo spazio dell’altro, come la nostra libertà non deve ledere quella dell’altro, qualsiasi cosa facciamo.
Fin da quando ero
bambina, ho sentito l’attrazione verso la città e durante la mia vita ho
vissuto in tante metropoli e le ho amate come simboli di libertà e di
grandezza. In ognuna di loro ho avuto la
possibilità di vedere il nuovo e il vecchio convivere in armonia, ho assistito
al sorgere di nuovi edifici, strade, ferrovie, musei, sono stata felice di non
essermi mai sentita sola, anche se le ho percorse in lungo e in largo da
solitaria.
Milano rappresenta il
mio percorso instancabile di città in città, sempre alla ricerca del nuovo e
del vecchio, del bello e del brutto, del bene e del male, come un tutt’unico da
cui niente e nessuno è escluso.
Milano come tutte le
città proiettate nel futuro, guarda in alto, perché ormai guardare in linea
retta, e non solo in architettura, è sintomo di poca apertura mentale, è uno
sbattere contro altri muri, è il non vedere più spazi aperti, prospettive e
speranze. Invece mirare in alto, verso
il cielo, verso nuove dimensioni, ci allarga i polmoni, ci ossigena il cervello
come succede agli scalatori che s’inerpicano sulle montagne per conquistarne le
cime.
Oggi, 8 dicembre
2012, all’apertura della piazza di Porta Nuova, in zona Garibaldi, ho sentito
più che mai la presenza di Lucifero, atterrato in questa parte della città che
si sta sviluppando guardando lassù, dove sta il futuro.
Il mio sguardo era puntato verso l’alto per
cercare la fine di quei grattacieli di acciaio che giganteggiavano nella
piazza, e intanto la attraversavo stando su un percorso che si snodava
circondato dall’acqua di un’enorme fontana che sembrava un girone dantesco. Mi
sembrava di camminare sull’acqua. E la fine non la vedevo, e le luci si
accendevano, in mezzo all’acqua, rosse, verdi, viola, blu, lo zampillare di
tante fontanelle, gli alberi di Natale, un coro di gospel, la gente che
fotografava, tutti con il naso all’insù.
Ho visto i visi
stupiti di grandi e piccoli, ho sentito che provavano la mia stessa felicità:
di essere parte di qualcosa e che quel qualcosa era anche merito loro. Per
questo lo slogan in grandi lettere rosse era “Un dono per Milano una grande
piazza”.
E i milanesi se la
meritano, quest’agorà del futuro perché Milano ha sempre rappresentato il
progresso, il cambiamento, la speranza, il coraggio, l’intraprendenza. E così
vuole continuare a essere, per non perdere i suoi abitanti anzi, per
acquistarne di nuovi.
Io sono una di
quelli…
Daria D.
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