18 dicembre, 2012

"Una pioggia Leggera", racconto di Daria D.



Una pioggia leggera, giallastra e luccicante bagnava la quarantesima strada e il suo volto, bello e stanco di piangere cercava nella notte qualcuno che glielo asciugasse.

Aveva passato la notte in un motel e la mattina dopo era andata all’aeroporto, dove si era imbarcata sul primo volo per New York.
Le aveva detto che sarebbe andato lì. Ma questo era successo molti anni prima.
Lontana un oceano intero dal suo passato, quello che provava ora in quella città, pur sola e infreddolita, con una valigia ancora tutta da riempire, era una grande felicità.
Non pensò nemmeno più a lui, mentre camminava alla ricerca di un posto dove dormire. Perché ci sarebbe venuta lo stesso, con o senza di lui, per trovarlo, o per dimenticarlo, se fosse stato necessario.
Era un po’ stanca ed era tardi, e per scaldarsi entrò in un bar con un lungo bancone di legno, una vetrina affacciata sul marciapiede, luci al neon troppo forti, un paio di clienti. E poi c’era lei. Portava un cappotto di cashmere nero sopra un vestito rosso, i capelli color mogano ricadevano sulle spalle in morbide onde che avvolgeva continuamente attorno alle dita dalle unghie color delle amarene. Si sedette sullo sgabello di finta pelle e ordinò un cognac. L’uomo vicino a lei la guardò con la coda dell’occhio, sentì un sapore di sigaro che le fece piacere. Tirò fuori uno specchietto dalla borsa e si guardò: era pallida, qualche piccola ruga si erano formata intorno agli occhi, ma la bocca era sensuale e gli occhi blu e profondi continuavano a essere un mare, dove molti uomini si erano immersi, e felicemente annegati.
Il cognac le entrò dentro come se avesse inghiottito la fiamma con la quale il suo vicino si era acceso il sigaro. Non sentiva più freddo ed era anche più sicura ora, mentre quei clienti nottambuli la osservavano chiedendosi chi fosse e perché era lì, a quell’ora della notte.
Lei invece pensò perché non fossero nelle loro case, a letto, a fare l’amore con le loro puttane travestite da mogli.  Ma tutto rimase sospeso, come il fumo che saliva nel bar.  E così la fantasia lasciava immaginare tutti gli scenari possibili, i più piacevoli e i più sgradevoli. Era la libertà di non essere nessuno in un mondo dove tutti volevano essere qualcuno.
Lei sapeva quello che cercava, era facile e difficile insieme, ma lo avrebbe ottenuto.
 Facile come acquistare un biglietto d’aereo, difficile come non voltarsi mai indietro.

“Appena arrivata, eh?” disse l’uomo al suo fianco, facendo cenno alla valigia.
“Sì. O forse no”
“Ne vuole un altro? Glielo offro io. “
“Grazie”

Edward Hopper, I Nottambuli
Notò che non portava anelli al dito. Nemmeno lei.
Che cosa strana pensò che dopo gli occhi di una persona si guardi la mano sinistra. Come se un anello nuziale ci impedisse di “appartenere” a qualcun altro. O ci desse il diritto di “possedere” qualcun altro.
Il cameriere aveva l’aspetto di un irlandese di mezza età, un po’ brusco, forse non vedeva l’ora di andarsene a casa da sua moglie, semplicemente una moglie. Ma la guardava con rispetto e forse con un po’ di tenerezza. Ne aveva viste tante di donne che si sedevano lì per ore e ore, per non tornare a casa dal marito violento, o per cercare clienti da portarsi all’albergo a ore dietro l’angolo. Non gli sembrava che lei appartenesse a nessuna delle due categorie, ma che fosse una creatura in cerca di qualcosa. Di amore? Libertà? Felicità?  Era strano che le cercasse in una città come NY, pensò, dove la gente viene per lavorare, per fare soldi. Continuò a strofinare il bancone e a riempire bicchieri, rimuginando che dopo tutto non erano fatti suoi.

“Qui tra dieci minuti chiudono. Ha un posto dove andare?”

Si accorse che anche i suoi occhi erano blu e che era elegantemente vestito proprio come un uomo d’affari della City. Le mani erano glabre, grandi, e le venne voglia di sfiorarle, e poi di tenersele tra le sue, anche se non sapeva nemmeno chi fosse. Mentre ebbe questo desiderio, lui le toccò il ginocchio con il suo, ma lei non si ritrasse e rimasero così, a contatto per qualche minuto.
Ma furono minuti che la ripagarono di anni di solitudine e tristezze.

“C’é un motel qui vicino?”
“Usciamo ora. Mi dia la valigia”

Il cameriere li salutò. Aveva capito fin dall’inizio che sarebbero andati via insieme.
Non pioveva più da un pezzo. Si avviarono per la strada deserta senza parlare. Poi il suo braccio le cinse i fianchi e lei sentì una piccola stretta, anche al cuore.

“Le piace il jazz? Non è poi tardissimo. Troverà da dormire. Glielo assicuro. C’e’ un posto qui accanto dove vado sempre a sentirlo, dopo avere bevuto un paio di cognac dal mio amico Patrick”.

“Non ho nemmeno la forza di rifiutare il suo invito.”

Scesero gli scalini e si ritrovarono in uno scantinato male illuminato, ma abbastanza da capire che era un posto frequentato da intenditori e amanti del jazz.
 Lasciarono la valigia al guardaroba, si sedettero in un piccolo separé e ordinarono due bourbon.

“Sa…questo posto è famoso per un musicista che arrivò dall’Italia qualche anno fa per fare fortuna. Si diceva che suonasse il sax sotto i portici del Duomo di Milano, e che nessuno avesse capito quanto fosse geniale.  Quando arrivò qua si diede da fare, girò tutti i locali, all’inizio non si faceva nemmeno pagare. Poi divenne ricco e celebre. Ma entrò nel giro della droga e diventò un eroinomane, ma suonava divinamente lo stesso…ecco.ascolti…è lui al sassofono. Lo ascolti attentamente, perché poi crollerà a terra. Succede tutte le sere. Ma nessuno ci fa più caso”

Lei mise a fuoco i suoi occhi tra le volute di fumo del locale e lo riconobbe.
Era l’uomo che l’aveva chiamata Violette e che non l’aveva aspettata, la notte di quel lontano inverno. Era l’uomo per cui aveva pianto, per anni. Era l’uomo per il quale era venuta a NY. Ma era talmente cambiato che avrebbe voluto distogliere lo sguardo da quel volto, scavato, invecchiato, già morto.  Ma non ci riuscì. Quando per un attimo alzò il viso dal sax, i loro occhi s’incrociarono, ma lui non la riconobbe e continuò a suonare.

“Le dispiace se andiamo via? Sono molto stanca. Magari torneremo un’altra sera.”

Quando si rese conto di avere perso per sempre quello che in fondo non aveva mai posseduto, cominciò a piangere in silenzio, ma non poté nascondere il trucco che le colava e i tremiti che la scuotevano.

Lui la strinse tra le braccia e la tenne stretta, appoggiando i suoi baci sulle guance umide.

“Dimentichi il passato. Ci sono io ora accanto a lei…”


Daria D.

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