Una notte in Tunisia, di Vitaliano Trevisan - Arezzo, Teatro
Mecenate, 1 dicembre 2012
La voce
del declino. Scene del finale di carriera di Bettino Craxi, dalle parole di
Trevisan all’intensa interpretazione di Haber, attraverso un’appassionata messa
in scena teatrale.
Il tratto forte che più
rimane impresso nella mente dello spettatore di Una notte in Tunisia è la magistrale interpretazione di Alessandro
Haber, che dal testo di Vitaliano Trevisan porta sulla scena Bettino Craxi e le
riflessioni dei suoi ultimi giorni di vita. Nonostante X sia il nome generico
del protagonista, l’attenta e calibrata caratterizzazione del personaggio fatta
da Haber non lascia dubbi sulla sua identità sia di politico che di uomo, al
punto che il ricordo si accende vivo in chi ha vissuto gli anni della sua lunga
carriera politica; mentre a coloro i quali - più o meno giovani - collegano il
nome di Craxi solo all’inchiesta Mani Pulite e quindi alla sua caduta, la prova
di Haber offre la possibilità di avere un’immagine più completa della sua
personalità. Il lavoro dell’attore sul personaggio è infatti un concentrato di
espressività gestuale e vocale, di mimica facciale: l’attore fissa nella sua
interpretazione i movimenti delle mani tipici di Craxi, il suo modo di
camminare e le sue posture, i tic e, in particolare, le sue tonalità di voce,
il suo discorrere segnato da pause, riprese e scatti rabbiosi. Emergono così
gli aspetti più personali dell’uomo pubblico, uniti al fluire dei suoi pensieri
incalzanti, che conduce lo spettatore nei meandri di una personalità complessa.
E la parola acquista un’importanza determinante nella costruzione dello
spettacolo.
Tutto si gioca sulla parola,
che risponde all’immobilità di fondo e dà movimento ad una scena che non
presenta azioni di rilievo. Pressoché immobile è il protagonista a causa della
malattia; il tempo sembra essersi fermato dopo l’esilio ad Hammamet, e scorre
lento verso una fine di cui X ha piena consapevolezza; persino lo spazio appare
contagiato da questa immobilità, e muta di poco da una scena all’altra. La
scenografia è essenziale ma di grande effetto: un tendaggio sul fondo che
delimita il dentro e il fuori e pochi oggetti di scena, tra cui un
tavolo-scrittoio e alcune sedie, definiscono uno spazio aperto, molto simile ad
una tenda nel deserto. Siamo dunque ben lontani da quella Milano che fu il
centro del potere craxiano, è uno spazio altro in un tempo che, più che essere
quello della giornata in cui si svolge l’azione, è soprattutto quello
soggettivo dell’introspezione. Ma se è il tempo del discorso a dominare, le
parole allora sono l’elemento che imprime ritmo allo spettacolo, a partire da
quelle concitate della moglie che, in ansia per l’aggravarsi della malattia di
X, fa di tutto per convincerlo a tornare in Italia per sottoporsi a un’operazione
(i riferimenti rispecchiano la realtà degli ultimi anni di Craxi), passando poi
per le parole turbate del fratello che fatica a gestire la situazione e ancor
più i conflitti irrisolti con X, fino ad arrivare a quelle taglienti dei monologhi
del protagonista che costituiscono il fulcro dell’opera.
La vicenda avanza con
l’avvicendarsi dei pensieri di X, che toccano l’esperienza politica (il
passato), la scelta dell’esilio e la malattia (il presente), la commistione di
sentimenti di fronte all’epilogo inglorioso della propria storia personale (il
futuro). Il tono del discorso si attenua quando sale la malinconia legata a
certe riflessioni, s’infervora durante le valutazioni non solo politiche ma
anche sociali della storia italiana, si fa rabbioso nell’affrontare lo scarto
tra la grandezza di un tempo e la solitudine del presente. Un turbine di parole,
più o meno accusatorie, in cui si confondono pubblico e privato, carriera
contestazione e caduta dell’uomo leader, politica e potere. Le sfaccettature
dei discorsi di X sono talmente tante che è riduttivo racchiuderle in un’unica
definizione, come bilancio di vita, invettiva contro i nemici o chi lo ha
abbandonato, giudizio storico; tutti questi caratteri sono presenti nel testo
di Trevisan e tessono la trama dello spettacolo.
C’è poi un altro aspetto dell’opera
da non sottovalutare: quella del protagonista non è soltanto una riflessione
interiore, è anche un confronto, a tratti addirittura una confessione ad un
altro personaggio quanto mai particolare. Si tratta di Cecchin (interpretato
degnamente da Pietro MIcci), un portiere d’albergo con il quale X passa molto
tempo e di cui si fida per la riservatezza tipica del suo mestiere. È una
figura nera, longilinea, che è quasi sempre in scena ora in veste di cameriere,
ora di confidente del protagonista, altre volte come osservatore. Cecchin
ascolta attentamente il fluire dei discorsi di X, lo segue nei movimenti,
risponde alle questioni che gli pone e lo punzecchia a sua volta; conosce bene
anche le mosse della moglie e del fratello, sa del loro progetto di riportare X
in patria, e spesso viene chiamato in causa proprio da loro due per avere
notizie sul protagonista. Cecchin segue tutto quello che succede da due
angolazioni: spesso dall’interno della scena e altre volte dall’esterno, dallo
stesso punto di vista dello spettatore; non solo, in alcuni casi è lui che
muove le azioni dei personaggi o che descrive quello che avviene in scena,
attraverso delle vere e proprie didascalie parlate. Allora si capisce che
Cecchin non è solo uno dei personaggi, ma diventa a tutti gli effetti il
regista della vicenda, e rappresenta l’elemento metateatrale dell’opera.
Tra le molteplici qualità
dello spettacolo diretto dalla regista Andrée Ruth Shammah c’è la capacità di
tenere insieme due elementi portanti: la raffigurazione imparziale dei tormenti
di Craxi nel suo ultimo periodo di vita, e un discorso sul teatro. Il teatro
infatti si rintraccia non soltanto nel protagonista di stampo shakespeariano,
nei riferimenti a Beckett e nelle citazioni di Bernhard, ma emerge anche nei
diversi ruoli di Cecchin. Quest’ultimo sembra voler mostrare allo spettatore
che la vita è teatro, nella dimensione quasi onirica dell’introspezione che non
ha né tempo né spazio ben definiti, e al tempo stesso che il teatro è la vita,
con la sua capacità di mostrarne sia gli aspetti più concreti, come la politica
e il potere, che quelli meno tangibili come la solitudine e lo sofferenza umane.
Una notte in Tunisia mostra le
potenzialità di una regia attenta e accurata, e conferma la grande passione per
il teatro di Andrée Ruth Shammah, capace di permeare qualunque testo e storia.
Sara Nocciolini
UNA NOTTE IN TUNISIA
di Vitaliano Trevisan
uno
spettacolo di Andrée Ruth Shammah
con Alessandro
Haber
e con Maria
Ariis, Pietro Micci, Roberto Trifirò
scene e costumi di Barbara Petrecca
luci di Gigi
Saccomandi
produzione Teatro
Franco Parenti
Aquiloni, di e con Paolo Poli - Arezzo, Teatro
Mecenate, 14 novembre 2012
L’omaggio di Paolo Poli a Giovanni Pascoli: una strana
combinazione di realismo poetico ed eccentricità nella rappresentazione.
Nel 2012 ricorre il centenario della
scomparsa di Giovanni Pascoli, e Paolo Poli celebra il poeta decadente con uno
spettacolo in due tempi, Aquiloni, che attinge a due importanti e ben note
raccolte poetiche pascoliane, Myricae e Poemetti. L’omaggio è chiaro già dal
titolo, che trae spunto da una delle poesie più care al poeta, L’aquilone
appunto, che dà l’avvio all’interpretazione scenica. A dirla tutta, più che dei
due tempi che suddividono la rappresentazione, si dovrebbe parlare dei due
spettacoli che la compongono, o meglio ancora delle due anime che le danno
vita: una, la più evidente, è quella poetica delle composizioni di Pascoli, che
acquistano voce grazie agli attori; l’altra, istrionica e trasformista, è
quella di Paolo Poli stesso che, in qualità di autore regista e attore,
caratterizza lo spettacolo con la sua pratica teatrale ormai consolidata. Il
risultato è uno strano spettacolo, che alterna i momenti dedicati alla poesia a
intermezzi musicali di vario genere.
Nell’immaginario collettivo Pascoli
è il poeta “del fanciullino”, e senza dubbio è uno degli autori scolastici per
antonomasia, tanto che le sue strofe affiorano con facilità nella memoria degli
italiani. Il primo dubbio che può sorgere di fronte ad uno spettacolo che si
propone di mettere in scena delle poesie è che tutto si riduca ad una mera
recitazione di versi, e all’orizzonte appare così lo spettro dell’esposizione
scolastica. Questo pericolo fortunatamente viene scampato, perché Paolo Poli
riesce a sfruttare al meglio l’occasione del centenario per ricordare Pascoli
puntando su una forma dinamica di spettacolo. Dal punto di vista scenico
infatti è ottima l’idea di alternare continuamente voci differenti tra loro per
impostazione e soprattutto per interpretazione, grazie alla presenza sul
palcoscenico di altri quattro attori insieme a Poli, poiché tali voci
rafforzano la musicalità propria dei versi. Inoltre il movimento creato
dall’entrare e uscire degli attori valorizza visivamente il ritmo interno dei
componimenti, e permette di evitare un loro susseguirsi monotono sulla scena.
Questo spettacolo dimostra che le
poesie di Pascoli a teatro funzionano, perché sono evocative e stimolano
l’immaginazione degli spettatori attraverso la raffigurazione di scorci
naturali e paesaggistici, oppure suggerendo immagini di vario genere, o ancora
per mezzo dei suoni linguistici - basti pensare alle numerose e ben note parole
onomatopeiche che contraddistinguono i testi pascoliani. Se lanciamo uno
sguardo alla critica letteraria, è sufficiente ricordare la notazione di
Gianfranco Contini, che elogiò il plurilinguismo di Pascoli rintracciando nei
suoi versi una varietà di lingue, che vanno dal dialetto alle espressioni
gergali delle figure contadine dell’Italia di fine Ottocento. Sul palcoscenico,
se da un lato la spontaneità linguistica e il realismo di base dei testi scelti
da Poli generano immagini che reggono la scena teatrale, dall’altro le tante
sfaccettature contenute in essi richiedono il giusto tempo per essere
assimilate e godute appieno dagli spettatori. E qui si rintraccia una prima
pecca dello spettacolo: certe volte il susseguirsi delle poesie all’interno
della stessa scena è troppo rapido, e tra una composizione e l’altra manca quel
respiro che sarebbe necessario a chi ascolta per rendersi conto che si è
‘voltato pagina’ e si è passati ad un’altra situazione, un altro contesto. È
vero che, come si è già detto, il ritmo sostenuto della recitazione permette di
evitare il pericolo di un’esposizione scolastica e monotona, tuttavia alcuni
passaggi troppo svelti, compresi quelli da una voce all’altra, penalizzano la
godibilità dei versi. Si tratta senza dubbio di un difficile equilibrio tra
l’alternanza dei testi poetici, non pensati per il palcoscenico, e una loro
interpretazione scenica che sia efficace, ma questo equilibrio è un elemento
importante che condiziona il fluire dello spettacolo.
Un altro difetto, o comunque un
aspetto della messa in scena che non convince è l’unione delle due anime, assai
diverse tra loro, che compongono lo spettacolo: la scrittura poetica di Pascoli
e l’impronta teatrale di Poli. Sia Myricae che i Poemetti sono opere fortemente
legate al mondo agreste, la prima è una rappresentazione in versi della vita
campestre e della condizione contadina, così come i Poemetti sono un invito
alla campagna, un’esortazione alla natura. Si tratta di una poesia quanto mai
realistica e dai contenuti concreti, che si propone di raccontare il vivere
comune di un preciso ambiente. Invece dal canto suo Paolo Poli è da sempre un
artista eccentrico, conosciuto per le sue performance stravaganti che
rispecchiano la sua personalità, e in tal senso lo spettacolo Aquiloni non è da
meno. Infatti i momenti poetici che ne compongono i due tempi sono staccati tra
loro da intermezzi musicali fatti di canzoni, danze e travestimenti di genere
diverso, che vanno dai floreali motivi della Belle Époque alla tradizione
italiana, fino all’esotismo di Guantanamera, canzone simbolo di Cuba. Il tutto
è arricchito dai costumi appariscenti di Santuzza Calì, da numerosi cambi
d’abito e dai grandi fondali dipinti di Emanuele Luzzati. La qualità della
messinscena è indiscutibile, - il gruppo di lavoro è senza dubbio di
prim’ordine – tuttavia la combinazione di poesia e intermezzi musicali risulta
forzata e poco armoniosa.
Infatti la concretezza delle poesie
di Pascoli si scontra con la spettacolarità degli intermezzi, che tanto
ricordano il teatro di varietà e il cabaret degli esordi; l’esagerazione di
certi costumi che danno colore alle canzoni si sposa male con le immagini di
vita contadina, e nello svolgersi della rappresentazione cresce il contrasto
tra il realismo pascoliano e la dimensione fantastica delle scene musicali, che
si muovono tra l’onirico e il fiabesco. Emergono di fatto due tipi di
spettacolo, uno di ascolto e l’altro di intrattenimento, che poco hanno a che
fare tra loro e che di conseguenza procedono senza mai intrecciarsi.
All’omaggio a Pascoli si alterna, nel senso vero del termine, l’eccentricità di
Paolo Poli, che non rinuncia a ritagliarsi all’interno dello spettacolo uno
spazio per la sua identità teatrale. Ma così facendo lo spettacolo non è più la
lettura del poeta fatta da Poli, perché non c’è solo Pascoli in scena, insieme
a lui, o meglio accanto a lui c’è anche l’espressione artistica di Poli stesso,
e ciò che crea disaccordo è che si tratta di due universi troppo distanti tra
loro.
Sara Nocciolini
AQUILONI
due tempi di Paolo Poli
liberamente tratti da Giovanni Pascoli
con Paolo Poli,
Fabrizio Casagrande, Daniele Corsetti, Alberto Gamberini, Giovanni Siniscalco
regia di Paolo
Poli
scene di
Emanuele Luzzati
costumi di Santuzza Calì
musiche di
Jacqueline Perrotin
coreografie di
Claudia Lawrence
produzione
Produzioni Teatrali Paolo Poli – Associazione Culturale
ARCHIVIO SINCRONICO FAMILIARE: Mostra alla Bilblioteca
di Arezzo dal sapore quotidiano. Giovedì 13 dicembre 2012
Un rito semplice e quotidiano quello
di conservare immagini e ricordi personali. Talmente comune da sembrare banale.
Eppure quando le menti creative del gruppo artistico BAU di Lucca hanno
coinvolto famiglie di Arezzo, nel mettere a disposizione ricordi evocativi
della loro vita, per esporle al pubblico, il risultato è stato una mostra
particolare e convincente. Si compone così questo Archivio personale e pubblico
fatto di foto, disegni, copertine di cd, frasi, pagine scritte, biglietti e
lettere che raccontano la storia di persone, delle loro emozioni, della loro
crescita che sembra rispecchiare un po’ i ricordi della vita di ciascuno e
della propria famiglia. Entrando nella sala della piccola mostra, il visitatore
viene accolto dall’atmosfera tranquilla ed intima dei locali della biblioteca.
L’allestimento semplice della mostra è evocativo del senso dei ricordi. Una
moltitudine di sedie vuote e distribuite nella stanza, sopra le quali sono
riposte una ad una immagini con
didascalie, mettono in primo piano quei piccoli oggetti, come se già
costituissero un pezzetto di individuo. Ogni fila di sedie porta un tema
diverso: amore, famiglia, vita, morte e sogni. Scrutando ognuna di esse il
visitatore ha la sensazione di rovistare tra i suoi ricordi riposti nei cassetti,
di ritrovare le canzoni, i disegni, le immagini nascoste nella sua memoria tra
quelli delle famiglie. Piccoli oggetti che diventano quasi piccoli tesori,
andando a scavare in maniera discreta e delicata nella vita delle persone,
riportando fuori non solo dolori ma anche gioie. E’ stato questo il senso della
mostra: riscoprire l’intimo, rendendo importante le piccole cose personali che
ci accomunano e che ci rendono simili. Questo è anche il senso dell’arte: dare
un sapore nuovo alle cose piccole, comuni, senza crearne altre ma rendendo
speciali quelle che già si hanno. Questa mostra è partita dalla piccola
provincia toscana per fare il giro di tutta la regione e di tutto il paese.
Simbolo che le piccole iniziative artistiche nate dal basso ci sono ancora nel
nostro paese e non rimangono indifferenti al pubblico.
Laura Santelli
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