29 gennaio, 2013

Cosa è accaduto ad Arezzo di questi tempi? “Una notte in Tunisia” e “Aquiloni” di Sara Nocciolini e “Archivio sincronico familiare” di Laura Santelli



Una notte in Tunisia, di Vitaliano Trevisan - Arezzo, Teatro Mecenate, 1 dicembre 2012

La voce del declino. Scene del finale di carriera di Bettino Craxi, dalle parole di Trevisan all’intensa interpretazione di Haber, attraverso un’appassionata messa in scena teatrale.

Il tratto forte che più rimane impresso nella mente dello spettatore di Una notte in Tunisia è la magistrale interpretazione di Alessandro Haber, che dal testo di Vitaliano Trevisan porta sulla scena Bettino Craxi e le riflessioni dei suoi ultimi giorni di vita. Nonostante X sia il nome generico del protagonista, l’attenta e calibrata caratterizzazione del personaggio fatta da Haber non lascia dubbi sulla sua identità sia di politico che di uomo, al punto che il ricordo si accende vivo in chi ha vissuto gli anni della sua lunga carriera politica; mentre a coloro i quali - più o meno giovani - collegano il nome di Craxi solo all’inchiesta Mani Pulite e quindi alla sua caduta, la prova di Haber offre la possibilità di avere un’immagine più completa della sua personalità. Il lavoro dell’attore sul personaggio è infatti un concentrato di espressività gestuale e vocale, di mimica facciale: l’attore fissa nella sua interpretazione i movimenti delle mani tipici di Craxi, il suo modo di camminare e le sue posture, i tic e, in particolare, le sue tonalità di voce, il suo discorrere segnato da pause, riprese e scatti rabbiosi. Emergono così gli aspetti più personali dell’uomo pubblico, uniti al fluire dei suoi pensieri incalzanti, che conduce lo spettatore nei meandri di una personalità complessa. E la parola acquista un’importanza determinante nella costruzione dello spettacolo.
Tutto si gioca sulla parola, che risponde all’immobilità di fondo e dà movimento ad una scena che non presenta azioni di rilievo. Pressoché immobile è il protagonista a causa della malattia; il tempo sembra essersi fermato dopo l’esilio ad Hammamet, e scorre lento verso una fine di cui X ha piena consapevolezza; persino lo spazio appare contagiato da questa immobilità, e muta di poco da una scena all’altra. La scenografia è essenziale ma di grande effetto: un tendaggio sul fondo che delimita il dentro e il fuori e pochi oggetti di scena, tra cui un tavolo-scrittoio e alcune sedie, definiscono uno spazio aperto, molto simile ad una tenda nel deserto. Siamo dunque ben lontani da quella Milano che fu il centro del potere craxiano, è uno spazio altro in un tempo che, più che essere quello della giornata in cui si svolge l’azione, è soprattutto quello soggettivo dell’introspezione. Ma se è il tempo del discorso a dominare, le parole allora sono l’elemento che imprime ritmo allo spettacolo, a partire da quelle concitate della moglie che, in ansia per l’aggravarsi della malattia di X, fa di tutto per convincerlo a tornare in Italia per sottoporsi a un’operazione (i riferimenti rispecchiano la realtà degli ultimi anni di Craxi), passando poi per le parole turbate del fratello che fatica a gestire la situazione e ancor più i conflitti irrisolti con X, fino ad arrivare a quelle taglienti dei monologhi del protagonista che costituiscono il fulcro dell’opera.
La vicenda avanza con l’avvicendarsi dei pensieri di X, che toccano l’esperienza politica (il passato), la scelta dell’esilio e la malattia (il presente), la commistione di sentimenti di fronte all’epilogo inglorioso della propria storia personale (il futuro). Il tono del discorso si attenua quando sale la malinconia legata a certe riflessioni, s’infervora durante le valutazioni non solo politiche ma anche sociali della storia italiana, si fa rabbioso nell’affrontare lo scarto tra la grandezza di un tempo e la solitudine del presente. Un turbine di parole, più o meno accusatorie, in cui si confondono pubblico e privato, carriera contestazione e caduta dell’uomo leader, politica e potere. Le sfaccettature dei discorsi di X sono talmente tante che è riduttivo racchiuderle in un’unica definizione, come bilancio di vita, invettiva contro i nemici o chi lo ha abbandonato, giudizio storico; tutti questi caratteri sono presenti nel testo di Trevisan e tessono la trama dello spettacolo.
C’è poi un altro aspetto dell’opera da non sottovalutare: quella del protagonista non è soltanto una riflessione interiore, è anche un confronto, a tratti addirittura una confessione ad un altro personaggio quanto mai particolare. Si tratta di Cecchin (interpretato degnamente da Pietro MIcci), un portiere d’albergo con il quale X passa molto tempo e di cui si fida per la riservatezza tipica del suo mestiere. È una figura nera, longilinea, che è quasi sempre in scena ora in veste di cameriere, ora di confidente del protagonista, altre volte come osservatore. Cecchin ascolta attentamente il fluire dei discorsi di X, lo segue nei movimenti, risponde alle questioni che gli pone e lo punzecchia a sua volta; conosce bene anche le mosse della moglie e del fratello, sa del loro progetto di riportare X in patria, e spesso viene chiamato in causa proprio da loro due per avere notizie sul protagonista. Cecchin segue tutto quello che succede da due angolazioni: spesso dall’interno della scena e altre volte dall’esterno, dallo stesso punto di vista dello spettatore; non solo, in alcuni casi è lui che muove le azioni dei personaggi o che descrive quello che avviene in scena, attraverso delle vere e proprie didascalie parlate. Allora si capisce che Cecchin non è solo uno dei personaggi, ma diventa a tutti gli effetti il regista della vicenda, e rappresenta l’elemento metateatrale dell’opera.
Tra le molteplici qualità dello spettacolo diretto dalla regista Andrée Ruth Shammah c’è la capacità di tenere insieme due elementi portanti: la raffigurazione imparziale dei tormenti di Craxi nel suo ultimo periodo di vita, e un discorso sul teatro. Il teatro infatti si rintraccia non soltanto nel protagonista di stampo shakespeariano, nei riferimenti a Beckett e nelle citazioni di Bernhard, ma emerge anche nei diversi ruoli di Cecchin. Quest’ultimo sembra voler mostrare allo spettatore che la vita è teatro, nella dimensione quasi onirica dell’introspezione che non ha né tempo né spazio ben definiti, e al tempo stesso che il teatro è la vita, con la sua capacità di mostrarne sia gli aspetti più concreti, come la politica e il potere, che quelli meno tangibili come la solitudine e lo sofferenza umane. Una notte in Tunisia mostra le potenzialità di una regia attenta e accurata, e conferma la grande passione per il teatro di Andrée Ruth Shammah, capace di permeare qualunque testo e storia.

Sara Nocciolini


UNA NOTTE IN TUNISIA
di  Vitaliano Trevisan
uno spettacolo di  Andrée Ruth Shammah
con  Alessandro Haber
e con  Maria Ariis, Pietro Micci, Roberto Trifirò
scene e costumi di  Barbara Petrecca
luci di  Gigi Saccomandi
produzione  Teatro Franco Parenti



Aquiloni, di e con Paolo Poli - Arezzo, Teatro Mecenate, 14 novembre 2012

L’omaggio di Paolo Poli a Giovanni Pascoli: una strana combinazione di realismo poetico ed eccentricità nella rappresentazione.


Nel 2012 ricorre il centenario della scomparsa di Giovanni Pascoli, e Paolo Poli celebra il poeta decadente con uno spettacolo in due tempi, Aquiloni, che attinge a due importanti e ben note raccolte poetiche pascoliane, Myricae e Poemetti. L’omaggio è chiaro già dal titolo, che trae spunto da una delle poesie più care al poeta, L’aquilone appunto, che dà l’avvio all’interpretazione scenica. A dirla tutta, più che dei due tempi che suddividono la rappresentazione, si dovrebbe parlare dei due spettacoli che la compongono, o meglio ancora delle due anime che le danno vita: una, la più evidente, è quella poetica delle composizioni di Pascoli, che acquistano voce grazie agli attori; l’altra, istrionica e trasformista, è quella di Paolo Poli stesso che, in qualità di autore regista e attore, caratterizza lo spettacolo con la sua pratica teatrale ormai consolidata. Il risultato è uno strano spettacolo, che alterna i momenti dedicati alla poesia a intermezzi musicali di vario genere.
Nell’immaginario collettivo Pascoli è il poeta “del fanciullino”, e senza dubbio è uno degli autori scolastici per antonomasia, tanto che le sue strofe affiorano con facilità nella memoria degli italiani. Il primo dubbio che può sorgere di fronte ad uno spettacolo che si propone di mettere in scena delle poesie è che tutto si riduca ad una mera recitazione di versi, e all’orizzonte appare così lo spettro dell’esposizione scolastica. Questo pericolo fortunatamente viene scampato, perché Paolo Poli riesce a sfruttare al meglio l’occasione del centenario per ricordare Pascoli puntando su una forma dinamica di spettacolo. Dal punto di vista scenico infatti è ottima l’idea di alternare continuamente voci differenti tra loro per impostazione e soprattutto per interpretazione, grazie alla presenza sul palcoscenico di altri quattro attori insieme a Poli, poiché tali voci rafforzano la musicalità propria dei versi. Inoltre il movimento creato dall’entrare e uscire degli attori valorizza visivamente il ritmo interno dei componimenti, e permette di evitare un loro susseguirsi monotono sulla scena.
Questo spettacolo dimostra che le poesie di Pascoli a teatro funzionano, perché sono evocative e stimolano l’immaginazione degli spettatori attraverso la raffigurazione di scorci naturali e paesaggistici, oppure suggerendo immagini di vario genere, o ancora per mezzo dei suoni linguistici - basti pensare alle numerose e ben note parole onomatopeiche che contraddistinguono i testi pascoliani. Se lanciamo uno sguardo alla critica letteraria, è sufficiente ricordare la notazione di Gianfranco Contini, che elogiò il plurilinguismo di Pascoli rintracciando nei suoi versi una varietà di lingue, che vanno dal dialetto alle espressioni gergali delle figure contadine dell’Italia di fine Ottocento. Sul palcoscenico, se da un lato la spontaneità linguistica e il realismo di base dei testi scelti da Poli generano immagini che reggono la scena teatrale, dall’altro le tante sfaccettature contenute in essi richiedono il giusto tempo per essere assimilate e godute appieno dagli spettatori. E qui si rintraccia una prima pecca dello spettacolo: certe volte il susseguirsi delle poesie all’interno della stessa scena è troppo rapido, e tra una composizione e l’altra manca quel respiro che sarebbe necessario a chi ascolta per rendersi conto che si è ‘voltato pagina’ e si è passati ad un’altra situazione, un altro contesto. È vero che, come si è già detto, il ritmo sostenuto della recitazione permette di evitare il pericolo di un’esposizione scolastica e monotona, tuttavia alcuni passaggi troppo svelti, compresi quelli da una voce all’altra, penalizzano la godibilità dei versi. Si tratta senza dubbio di un difficile equilibrio tra l’alternanza dei testi poetici, non pensati per il palcoscenico, e una loro interpretazione scenica che sia efficace, ma questo equilibrio è un elemento importante che condiziona il fluire dello spettacolo.
Un altro difetto, o comunque un aspetto della messa in scena che non convince è l’unione delle due anime, assai diverse tra loro, che compongono lo spettacolo: la scrittura poetica di Pascoli e l’impronta teatrale di Poli. Sia Myricae che i Poemetti sono opere fortemente legate al mondo agreste, la prima è una rappresentazione in versi della vita campestre e della condizione contadina, così come i Poemetti sono un invito alla campagna, un’esortazione alla natura. Si tratta di una poesia quanto mai realistica e dai contenuti concreti, che si propone di raccontare il vivere comune di un preciso ambiente. Invece dal canto suo Paolo Poli è da sempre un artista eccentrico, conosciuto per le sue performance stravaganti che rispecchiano la sua personalità, e in tal senso lo spettacolo Aquiloni non è da meno. Infatti i momenti poetici che ne compongono i due tempi sono staccati tra loro da intermezzi musicali fatti di canzoni, danze e travestimenti di genere diverso, che vanno dai floreali motivi della Belle Époque alla tradizione italiana, fino all’esotismo di Guantanamera, canzone simbolo di Cuba. Il tutto è arricchito dai costumi appariscenti di Santuzza Calì, da numerosi cambi d’abito e dai grandi fondali dipinti di Emanuele Luzzati. La qualità della messinscena è indiscutibile, - il gruppo di lavoro è senza dubbio di prim’ordine – tuttavia la combinazione di poesia e intermezzi musicali risulta forzata e poco armoniosa.
Infatti la concretezza delle poesie di Pascoli si scontra con la spettacolarità degli intermezzi, che tanto ricordano il teatro di varietà e il cabaret degli esordi; l’esagerazione di certi costumi che danno colore alle canzoni si sposa male con le immagini di vita contadina, e nello svolgersi della rappresentazione cresce il contrasto tra il realismo pascoliano e la dimensione fantastica delle scene musicali, che si muovono tra l’onirico e il fiabesco. Emergono di fatto due tipi di spettacolo, uno di ascolto e l’altro di intrattenimento, che poco hanno a che fare tra loro e che di conseguenza procedono senza mai intrecciarsi. All’omaggio a Pascoli si alterna, nel senso vero del termine, l’eccentricità di Paolo Poli, che non rinuncia a ritagliarsi all’interno dello spettacolo uno spazio per la sua identità teatrale. Ma così facendo lo spettacolo non è più la lettura del poeta fatta da Poli, perché non c’è solo Pascoli in scena, insieme a lui, o meglio accanto a lui c’è anche l’espressione artistica di Poli stesso, e ciò che crea disaccordo è che si tratta di due universi troppo distanti tra loro.

Sara Nocciolini

  
AQUILONI
due tempi di Paolo Poli
liberamente tratti da Giovanni Pascoli
con  Paolo Poli, Fabrizio Casagrande, Daniele Corsetti, Alberto Gamberini, Giovanni Siniscalco
regia di  Paolo Poli
scene di  Emanuele Luzzati
costumi di Santuzza Calì
musiche di  Jacqueline Perrotin
coreografie di  Claudia Lawrence
produzione  Produzioni Teatrali Paolo Poli – Associazione Culturale



ARCHIVIO SINCRONICO FAMILIARE: Mostra alla Bilblioteca di Arezzo dal sapore quotidiano. Giovedì 13 dicembre 2012

Un rito semplice e quotidiano quello di conservare immagini e ricordi personali. Talmente comune da sembrare banale. Eppure quando le menti creative del gruppo artistico BAU di Lucca hanno coinvolto famiglie di Arezzo, nel mettere a disposizione ricordi evocativi della loro vita, per esporle al pubblico, il risultato è stato una mostra particolare e convincente. Si compone così questo Archivio personale e pubblico fatto di foto, disegni, copertine di cd, frasi, pagine scritte, biglietti e lettere che raccontano la storia di persone, delle loro emozioni, della loro crescita che sembra rispecchiare un po’ i ricordi della vita di ciascuno e della propria famiglia. Entrando nella sala della piccola mostra, il visitatore viene accolto dall’atmosfera tranquilla ed intima dei locali della biblioteca. L’allestimento semplice della mostra è evocativo del senso dei ricordi. Una moltitudine di sedie vuote e distribuite nella stanza, sopra le quali sono riposte una ad una immagini  con didascalie, mettono in primo piano quei piccoli oggetti, come se già costituissero un pezzetto di individuo. Ogni fila di sedie porta un tema diverso: amore, famiglia, vita, morte e sogni. Scrutando ognuna di esse il visitatore ha la sensazione di rovistare tra i suoi ricordi riposti nei cassetti, di ritrovare le canzoni, i disegni, le immagini nascoste nella sua memoria tra quelli delle famiglie. Piccoli oggetti che diventano quasi piccoli tesori, andando a scavare in maniera discreta e delicata nella vita delle persone, riportando fuori non solo dolori ma anche gioie. E’ stato questo il senso della mostra: riscoprire l’intimo, rendendo importante le piccole cose personali che ci accomunano e che ci rendono simili. Questo è anche il senso dell’arte: dare un sapore nuovo alle cose piccole, comuni, senza crearne altre ma rendendo speciali quelle che già si hanno. Questa mostra è partita dalla piccola provincia toscana per fare il giro di tutta la regione e di tutto il paese. Simbolo che le piccole iniziative artistiche nate dal basso ci sono ancora nel nostro paese e non rimangono indifferenti al pubblico.

Laura Santelli

Nessun commento:

Posta un commento