Teatro
Oscar di Milano dal 18 al 27 gennaio 2013
Quando un’attrice
come Angela Malfitano prende un testo del Premio Nobel per la letteratura nel
2004 Elfriede Jelinek che non ritirò di persona perché affetta da agorafobia, indossa
una tunica nera, fili di perle intorno
al collo e i polsi, una cuffietta sulla testa stile anni trenta, guanti di pizzo,
il trucco da macabro Pierrot e un cappotto militare sulle spalle e recita tutto il tempo dentro una bara sopraelevata
e trasportata da sei inservienti in abiti tirolesi, non può che suscitare la
nostra curiosità di “elfi”.
La Regina dentro la
cassa da morto, un tempo padrona di casa ora ironicamente solo “padrona di
cassa”, come la definisce la sarcastica Jelinek, è Paula Wessely un’attrice del
Burgtheater, allieva di Max Reinhardt, nata a Vienna nel 1907 e morta nel 2000,
sposata con Attila Hörbiger anch’egli membro del famoso teatro, madre di tre
figlie che hanno seguito le orme materne. Paula è stata “complice” della
propaganda nazista, le cui immagini sempre orrende, anche dopo decenni,
scorrono su uno schermo mentre lei se le gode distesa nella bara, inframmezzate
da idilliche scene di vita sportiva, dove giovani belli e biondi si esercitano
agli anelli o nel salto in lungo. Paula guarda tutto ciò con trionfale
soddisfazione come a dire “Io c’ero”. Sì ma ora sei dentro una bara, pensiamo
noi “elfi”, che ci sentiamo trattati da burattini, usati, umiliati, eppure in
adorazione della grande attrice, così grande che “potrei nascondermi dietro me
stessa”, come ci sbatte in faccia la Regina, che in fondo ha bisogno di noi,
per esistere. La sua arroganza e la sua sete di potere ne
hanno fatto una delle più importanti attrici del Terzo Reich. Mentre la sento
dire “che fatica essere adorati”, “avrei tanto da dare, peccato”, in stile
tipicamente melodrammatico e ruffiano, mi viene in mente la cieca ammirazione
del popolo per i capi, per l’autorità, basta solo che indossino una divisa, un
mantello, una toga, che riempiano gli schermi televisivi, che salgano su un
pulpito o urlino le loro pazzie da una terrazza alle folle acclamanti e obbedienti.
La Regina ci ripete
che “ha sprecato tempo per noi” per farci sentire in colpa, poveri esseri
minuscoli e insignificanti, che ora aspettiamo un pezzo della sua carne prima
che si decomponga. In quest’ultimo atto, come in un Sunset Boulevard dalle
tinte ancora più fosche, la protagonista diventa imbonitrice di se stessa, ma
noi per quanto “stupide masse ignoranti ” capiamo che ha vissuto e recitato
illudendosi di avere il potere su noi spettatori, sui nostri sentimenti, senza
essersi mai accorta che a sua volta è stata manipolata da un potere maschile più
grande di lei, soggiogata sotto il famigerato simbolo della croce uncinata.
La Malfitano recita
con sarcasmo, drammaticità, ironia, è vittima e padrona esattamente come nelle
intenzioni della Jelinek, ebrea da parte di padre, femminista, iscritta al
partito comunista austriaco da cui uscirà negli anni novanta, “vittima” di una
madre fervente cattolica, scrittrice capace di parlarci di gengive, assorbenti,
gabinetti con la stessa scrittura demistificante con cui affronta i temi del
potere e del femminismo, del sadismo, della libertà, della politica.
Posso capire quello
che ha provato Angela Malfitano quando si è trovata davanti questo testo
provocatorio e difficile che fa parte del progetto PACTA. dei Teatri,
DonneTeatroDiritti, ma non per questo si è tirata indietro. Anzi ha rischiato,
interpretando un personaggio scomodo, antipatico, tagliente, arrogante, un’eroina
con i piedi di argilla, anzi, già nella fossa. Ci guarda dall’alto, ci prende
in giro, fa finta di essere seduta su un comodo sofà eppure è distesa in una
cassa da morto, e delirando fa intravvedere il suo bisogno di rimanere
attaccata alla vita per continuare a recitare, perché dalla postazione
sopraelevata del palco, ma non è anche la bara sospesa? lei può esercitare meglio il potere sugli
spettatori/elfi.
Un’occasione, questo
monologo della brava Malfitano che porta a pennello una giacca verde militare e
perché non una di pelle delle SS,
suggerisco io? e collane di perle con cui verrebbe voglia di strozzarla,
per leggere, per chi non la conosca ancora, la Jenilek, a cominciare dal
tormentato e autobiografico “La pianista”.
Paula Wessely nella
scrittura della Jelinek è quello che le donne non dovrebbero essere, ma che
sono, talvolta e non sempre per colpa loro. Almeno io, la penso così. Ma
rappresenta anche e soprattutto il potere,
quello che a volte è e che non dovrebbe essere e che per nessuna ragione
dovrebbe essere scagionato. È il delirio di onnipotenza dell’uomo che, solo per
essere salito su un gradino più alto, si sente in diritto di soggiogare e
manipolare gusti, scelte, opinioni, idee. E quando muore, pensa di poter ancora continuare a sputarci
addosso quella bava maleodorante che in vita ci ha fatto credere fosse un residuo di pasta dentifricia.
La bara lentamente
esce dal teatro per essere interrata, portando con sé quella farneticante pericolosa
sete di potere ed io, seguendola con lo sguardo finché non ci farà più paura, mi
auguro che invece quel tremendo periodo storico non lo sia mai, anche se la
memoria storica a volte è assai corta e gli insegnamenti perduti tra ipocrisia,
pentimento, scuse e zucchero
filato.
Daria D.
LA REGINA DEGLI ELFI
Long
playing
Da
Elfriede Jelinek
Di
e con Angela Malfitano
Assistente
alla regia Alessandra Lanfranchi
Con
l’aiuto di Rossella Cabiddu, Alessandro
Carnevale Pellino, Andrea Cazzato, Anna Cei, Caterina Grandi, Cecilia
Lorenzetti, Lucia Mazzotta, Maria
Emanuela Oddo, Francesca Pasino, Andrea Rinaldi, Agnese Troccoli, Stefano Zanasi.
Video
Lorenzo Letizia
Suono
Francesco Brini
Foto
Alessandra Fuccillo
CameraOff
Tecnico Emanuele Cavalcanti
In
collaborazione con
Associazione
T.I.L.T.
Sala
Biagi-‐D’Antona-‐Comune
Di
Castel Maggiore, Sì*Metrica, Spazioindue, Fondazione Teatro Gaetano Fraschini
Un
ringraziamento
A
Elena Di Gioia, Marta Dalla Via, Anna Del Mugnaio, Marco De Marinis, Mario
Giorgi, Roberto Grandi, Roberto Latini-‐Teatro
San Martino, Francesca Mazza, Silvia Mei, Marco Sgrosso.
Produzione
Associazione Tra un atto e l’altro
Durata
50’
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