Non sopporto quando vedo
un film di capire dopo dieci minuti come andrà a finire, tanto la storia è banale
e senza sorprese e mi alzerei e me ne andrei se non avessi un minimo di
rispetto per tutti quelli che ci hanno lavorato. E quando dico tutti, intendo
anche il ragazzino del catering e l’aiuto dell’aiuto della sarta scenografa, i
cui nomi sono citati nei titoli di coda che io mi sorbisco fino alla fine. Lo
faccio per una questione di rispetto, ribadisco, perché so quanta fatica c’è
dietro ad ogni film.
Così mi è successo
con “Quello che so dell’amore” di Gabriele Muccino, che sono andata a vedere
(ahimè) per capire perché non ha avuto successo negli States e credo non ne
avrà nemmeno qui, ricordandomi le parole di rabbia del regista contro lo star system, di cui non si capisce se ci
fa parte, se gli interessa di appartenerci, oppure se si sente così superiore e
forte che preferisce colpirlo da fuori.
Certo che attaccarlo con un film mediocre come questo non gli gioverà.
Già alla seconda
sequenza, quando il simpatico e attraente Gerald Butler, che impersona George
Dryer, a proposito, è raro che un protagonista fisicamente piacente e fortunato
con le donne sia un perdente, non pensate? suona alla porta di casa della sua
ex per andare a prendere il figlio e portarlo agli allenamenti di calcio, e la
guarda con la faccia tra il cane bastonato e quello che non ha smesso di
amarla... avevo capito che si sarebbero rimessi insieme, prima della sviolinata
finale. Il poveretto la segue perfino nel camerino, dove si sta provando il
vestito da sposa per dichiararle il suo amore. Sì perché la ex sta per risposarsi. Lui invece, pur vivendo una vita da seduttore, non ha mai smesso di pensare a lei. Le
solite lacrime di coccodrillo. Comunque c’è anche di mezzo il figlio, per cui
prova un grande senso di colpa, perché come padre sempre in giro per i suoi
impegni sportivi, non è mai stato molto presente. Altre lacrime di coccodrillo.
Ora, dico io, che un
famoso campione di calcio, ancora atletico, giovanile, bello, simpatico, va bene
un po’ figlio di buona donna, si ritrovi senza lavoro, costretto a fare l’allenatore
di una squadretta di bambini, tra cui il suo, in una città di provincia della
Virginia, non è molto american style. Ma forse Muccino non ha ancora capito bene
come funziona l’America. D’altra parte il regista mi dà l’impressione di voler portare
la nostra commedia all’italiana, con le mogli e i mariti adulteri, le zitelle in
astinenza che salterebbero addosso al primo che passa, meglio se è Butler, i
ricchi pronti a versare mazzette per “comprare” gli allenatori che girano con
la Ferrari nemmeno fossero a Hollywood, i vicini di casa curiosi, sul suolo
americano, come se gli americani capissero questo stile di vita. E, infatti,
non solo non lo capiscono, ma non lo approvano nemmeno. Ok, ok, saranno pure
puritani, ma questo film sembra più una commediola per spingere gli americani a
fargli capire quanto siano belli il calcio e la Ferrari (soprattutto quando
sponsorizza).
Il film è ripetitivo
ed estremamente noioso, si svolge tra un misero campetto di calcio, qualche
strada fuori mano, interni anonimi e a buon mercato, ma dando molto spazio pubblicitario
al rosso bolide e alla Duetto dell’Alfa Romeo. Del verde stato del Sud nulla si
vede, se non la targa sulle macchine.
E per piacere non
giudichiamo il film se ha un cast definito “stellare” ma diretto male, forse il
miglior attore è il bambino anche se sempre imbronciato come nel cliché dei
figli di divorziati e a volte Butler, che però sa di essere bello e recita con
questa convinzione. Io l’avrei visto meglio come giocatore di hockey che come
campione di calcio. Il resto delle “stelle”, Uma Thurman, la Zeta-Jones e
Dennis Quaid è a dir poco penoso.
Il film è brutto,
Muccino vuole fare l’americano senza riuscirci pienamente, in più sta perdendo la sua italianità. Ci sbatte addosso un cliché
dietro l’altro come se questo bastasse a fare un bel film.
Si sente, fin dagli
inizi, che è sceso a molti compromessi per aprirsi un varco a Hollywood perché la fama è una sirena cui pochi si sottraggono.
Perciò non faccia
l’ingenuo e si decida allora cosa vuole essere, cosa vuole fare, evitando di offendere
un sistema che gli ha prodotto, non si sa per quale alchimia, ben tre film. E
che se ora gli stronca quest’ultimo, ne ha tutte le ragioni. Non è invidia o
ignoranza.
Tuttavia, avendo
vissuto a Hollywood per tanti anni, senz’altro più di Muccino, so che non è
facile “sfondare” soprattutto nello show
business ma la possibilità arriva, alla fine, dipende da quanto si è
disposti a pagare. Ma se fallisci, la porta non si riaprirà una seconda volta.
So
long
Muccino! Accetta la sconfitta, in fondo, il bello è partecipare.
Daria D.
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