Il regista afgano
Atiq Rahimi propone un film tratto dal suo omonimo libro.
La protagonista, il
cui complesso ruolo è stato affidato all’attrice Golshifteh Farahani,
interprete di film quali Pollo alle prugne (2011) e Just like a Woman (2012), è
una donna, moglie e madre di due bambine.
Suo marito è in coma:
gli resta conficcata una pallottola nel collo, a causa di una rissa in uno
scontro armato . Lei lo cura e lo assiste.
C’è la guerra fuori:
il rumore assordante delle bombe e delle sparatorie sembra non dar tregua.
Nonostante sia
visibilmente impaurita all’idea di dover affrontare una situazione tanto
complessa da sola, la donna si fa forza: porta le figlie da sua zia e si dedica
totalmente al marito, restando in sua compagnia in una casa abbandonata e un
paese invaso da macerie.
Scopre che per la
prima volta può osare: può parlare liberamente, denudarsi di peccati, di
segreti, di ciò che non avrebbe mai potuto svelare per non correre il rischio
della morte.
Non è un caso,
infatti, che il titolo originale del film e del libro sia 'syngué sabour'.
L’espressione, nella tradizione popolare afghana, significa la 'pietra
paziente': un sasso magico al quale è possibile raccontare e confessare tutto.
L’oggetto ha la caratteristica di assorbire tutte le rivelazioni fino a quando,
divenendone colmo, non si sgretola.
La metafora del
macigno, significativa e simbolica, rende perfettamente la condizione a cui
questa donna è sottoposta: indifferenza, silenzio, sottomissione, omertà. Non
c’è amore né comprensione; non c’è la voglia di ascoltare né il tempo da
dedicare.
La donna resta un
essere inferiore, costretta a nascondere se stessa sotto un velo, segno di
protezione e di occultamento. Nessun diritto di esprimere se stessa, i propri
dolori o le fragilità. Un oggetto da usare, se sterile da buttare. Una merce di
scambio, che fin quando è sposata porta su di sé il cartello “proprietà
privata”.
La necessità di
approfittare di questo momento favorevole per farsi conoscere diventa la
priorità: c’è il bisogno di auto-analizzarsi quotidianamente e di ripulire
un’anima pregna di misteri, consapevole però, di non dover essere giudicata né
condannata da nessuno al di fuori di se stessa e di quel dio più volte invocato.
In un mondo la cui
cultura risulta essere divergente, (se non addirittura incompatibile), rispetto
a quella occidentale, la figura femminile viene mostrata come un esempio di
forza e coraggio.
L’audacia e il
desiderio di emergere dalla propria condizione e di essere ripagata dopo tanta
sofferenza fa sì che la protagonista senta di lottare con il corpo, per il
corpo e per i sentimenti utilizzando ogni mezzo: sporcando le proprie mani per
lavare e depurare la propria dignità.
Francesca Saveria Cimmino
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