Non opera che non peregrina
Come neve a coltre
nella bianca
disciplina invernale,
che ogni volto di
piaggia inseverisce,
Amore e Psiche, Antonio Canova |
nell’essenziale,
specchiante
guardo discreto,
così questa languida
assenza
che consuma e si
consuma
nell’esausto circolo
di me.
Declinato a fine
acerba
e a manchevole guisa,
mentre tutto ottunde
e lacera,
nel rosso della
ferita
che sangue non gemma.
Nell’anestesia
del dilatarsi ubiquo
e indifferente,
il monito corrucciato
delle ghirlande
andate:
gettate inerti,
al ciglio esausto del
passato.
Rattoppata
consunzione d’infausti giorni,
universo curvo
che rinnova algoritmi
di mortificante resa.
L’occhio soffre la
luce,
la dolcezza, piange,
che squaglia e ricuce;
senza resa arrende
all’amore,
il solido sciupio di
altre abiure,
passite sembianze
di circostanze
svuotate,
mantelli di senso a
palandrane pese,
istantanee di spazi e
tempi stracciati,
sollecitudine usata,
che nell’ansia
rinnova
fatiche insensate.
Quel che ho
nel sogno l’ho
posseduto;
e quel che abitai
mai lo colsi alla
presenza mia.
Cooptato ho, giorni e
compagni –
mai abbracciati con
dignità d’uomo
nel solo spazio
condiviso
che la somma non
detrae
ma moltiplica.
Gusci e scorze e
lesine,
cieli sfarinati,
groppi e nodi e lai,
risa a cunei
nell’immota laguna dei giorni –
cuspidi di cruda
luce.
Sul levigato corso, e
mercuriale,
di una vita a simboli
e segni popolata,
nel suo infesto
stagnare,
né presente e destino
si può.
Sacrale belligeranza,
che caracolla furente
senza fodero che non
vuoto,
né taglio mordace
da dirigere a danza
d’affondi e fendenti,
che sangue in spettro
non sveli
da presenze spettrali
–
cui il perdonarsi
urge,
e il perdonare
vita che a sé piega
e ripiega
nell’andare,
e a sé aliena,
in sé insiste con
cieco morbo.
Cui urge il non
scavarla e scorticarla,
per potersi svenire
tra le braccia dell’amore,
non facendo
metafisica morale
del suo penoso
claudicare;
tassonomie spoglie,
invece,
di presenze nemiche,
e liturgie di un
inagrire in fioco dolore:
fine, movente e somma,
di sfiancarsi e
sfiancarla nell’inazione,
col genuflesso suo,
macchinato e
inconscio,
rifrangersi di spine
a corone
presso un vuoto
specchiante e idolatra.
Nel gesto malcerto
scolpita
per ellissi di
nevrosi e detrazioni,
che il gesto deflette
a cognizioni d’essere,
arcigne a senso qual
che sia.
E allora impotenti,
sempre,
a perimetri propri e
a tropi,
se non quelli
descritti per sottrazione di terreno.
Sisifo ridicolo, io,
che a missione
rivendica, la condanna propria
d’opera non avere, se
non peregrina
Massimo Triolo
Nessun commento:
Posta un commento