Visto al Teatro Signorelli di Cortona
Il Grande Gatsby (The Great Gatsby) di Baz Luhrmann, uscito nelle sale americane il
10 maggio scorso, è la più recente trasposizione cinematografica del romanzo
scritto da Francis Scott Fitzgerald nel 1925.
Nick
Carraway, giovane di poche risorse, è cugino di Daisy Buchanan, sposa di uno
degli uomini più ricchi della costa est degli Stati Uniti negli anni Venti.
Daisy non ama particolarmente suo marito, conoscendone le continue scappatelle,
ma la vita agiata e la sua inesistente assertività le impediscono di reagire. Accanto
alla casetta in affitto di Nick, proprio dalla parte di Long Island opposta
alla villa di Daisy, si erge la magione del misterioso Jay Gatsby, uomo
ricchissimo, famoso per le incredibili feste che organizza quasi
quotidianamente. Gatsby riesce a farsi amico Nick, e gli spiega la propria
storia: nato poverissimo, è riuscito ad arricchirsi grazie alla propria
intraprendenza e a business non esattamente leciti. Ha conquistato una
posizione invidiabile e una ricchezza da sogno, ma non è riuscito a riprendersi
Daisy, sua fidanzata prima della Guerra e ormai accasata al suo ritorno: è
proprio per lei che organizza le feste, sperando che prima o poi possa essere
attirata dalle luci e dalla musica e lo venga a trovare. Ma è solo grazie a Nick
che i due possono incontrarsi a distanza di anni, e rinnovare un legame mai
sopito. Gatsby riesce persino a convincere Daisy a lasciare il marito. Ma gli
eventi non seguiranno lo schema che si era immaginato.
È noto che la primissima
versione del romanzo era intitolata Trimalchio,
ossia Trimalcione, come il protagonista di una delle sequenze più gustose e
conosciute del Satyricon di Petronio.
Trimalcione, nel romanzo latino, è la personificazione spietata dei disvalori
dei parvenus dell’età imperiale: gretto,
volgare, scialacquatore, si fa un nome grazie alle interminabili cene che
organizza. E questo è un elemento che lo avvicina a Jay Gatsby. Ma la
somiglianza tra i personaggi non è l’unica caratteristica che avvicina Il Grande Gatsby al Satyricon.
L’intero romanzo di
Petronio – o perlomeno quanto ci è rimasto di esso – è influenzato da un’angosciante
sensazione di morte e abbattimento. L’esasperazione delle forme, le feste che
durano fino al mattino, altro non sono che un disperato tentativo di esorcizzare
l’agghiacciante compagnia della triste mietitrice, che appare ovunque e
comunque. Il romanzo di Fitzgerald non si sottrae a questo atteggiamento,
seguendo un motivo che costella l’intera storia della cultura europea: c’è un fil rouge che unisce le feste di
Trimalcione alle novelle del Decameron,
le volute ardite di Borromini alla prolissità del Sentimento del tempo ungarettiano. “Chi vuol esser lieto sia, di
doman non c’è certezza”, è la degna epigrafe di queste opere.
Il regista
australiano Baz Lurhmann (Romeo +
Giulietta, Moulin Rouge!, Australia) ha gioco facile nel proporre
sullo schermo la cifra incontenibile delle feste di Gatsby. Formatosi sulle più
diverse forme di regia musicale (videoclips, musical, melodramma), convinto
promotore dell’estetica camp, non
lascia nulla al caso, attribuendo alla colonna sonora un ruolo così
significativo da spostare la data di uscita del film di sei mesi, pur di
ottenere i diritti di tutti i brani inclusi. Il commento musicale, così come
era avvenuto per Moulin Rouge! è
volutamente anacronistico: Lana del Rey, Black Eyed Peas, Beyonce, Jay Z, Emeli
Sande… praticamente tutta la top 10 di
Billboard è presente, con pure
qualche incursione nei territori più hipster (The xx). In certe scene la scelta
è azzeccata, ma non sempre: talvolta i pezzi moderni paiono poco coerenti con
la sequenza, in modo opposto a quanto avviene in Django Unchained (in cui Tarantino riesce a mescolare
miracolosamente Morricone e Jim Croce, 2Pac e Johnny Cash).
Se sul piano formale
poco si può dire a Lurhmann – certo, il suo modo di girare è sempre eccessivo,
magniloquente, esagerato, e può non piacere. Ma l’età del jazz è proprio queste
tre cose: eccessiva-magniloquente-esagerata. L’augurio che possiamo fargli,
semmai, è che fra venti o trent’anni questo film assomigli più al Rocky Horror che a Jesus Christ Superstar: all’epoca furono entrambi all’avanguardia,
ma al giorno d’oggi il primo non risente dello stantìo odore di flower power che ammanta il secondo. Sul
piano del contenuto, gran parte del film sembra ignorare le riflessioni
esistenziali del romanzo di Fitzgerald. Neppure le notevoli doti mimetiche di
Leonardo Di Caprio sembrano in grado di squarciare i coloratissimi tendaggi che
avvolgono la pellicola, e i colleghi non paiono sempre all’altezza: in
particolare Carey Mulligan, nel ruolo di Daisy, è poco convincente.
È solo nelle ultime
sequenze che il film concretizza il senso dell’opera di Fitzgerald, attraverso due
scene fortemente elaborate (la morte di Gatsby e la luce verde) ma persuasive.
In conclusione,
questa nuova versione di Gatsby ha carattere: può piacere o non piacere, ma non
passa certo inosservata. Quello che alcuni possono detestare – la pervasività
della musica, la plasticosità delle scenografie, i colori improbabilmente
saturi, le sequenze accelerate – lo possono apprezzare altri. È un cinema più
vicino a Tarantino e Kusturica (mutatis
mutandis) che a quello lineare di matrice europea; ha il merito di essere una
delle poche testimonianze di kolossal senza supereroi o vampiri o esili trame
bellicose, ma risulta a tratti troppo veloce e poco intelligibile. Il rapporto
col libro di partenza è tutto particolare, e dovremmo intendere questo film più
come “opera originale che prende larghi spunti dal testo di Fitzgerald” che
come “versione cinematografica del romanzo”. Anche perché il libro è molto più
bello, ma non per questo non dovreste vedere il film. Giudizio: s.v.
Alessandro Ferri
a me è piaciuto!! Nicoletta
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