Jep Gambardella
(Servillo), scrittore sessantacinquenne in piena crisi esistenziale, vive per
inerzia nel suo buen retiro capitolino -un appartamento con vista mozzafiato
sul Colosseo- barcamenandosi tra squallide serate discotecare, interviste ad
artisti improbabili, conversazioni tra pseudo-intellettuali e la tentazione di
ricominciare a scrivere. A risvegliare in lui un po' di tenerezza e di amore
perduti, ma anche ad acuire il suo disagio interiore, provvedono due incontri:
quello con una spogliarellista quarantenne e quello con il marito, ora vedovo,
della sua prima fidanzatina.
"LA DOLCE
VITA" 50 anni dopo? In parte sì, ma Sorrentino, se possibile, va giù ancor
più duro di Fellini nel ritrarre il declino della "città eterna" e
con essa del paese che rappresenta; quello che scorre sotto gli occhi del
cinico, anestetizzato, apatico, disilluso e stanco Jep (la cui espressione
supera in eloquenza qualunque parola) è un campionario antropologico degno del
bestiario immortalato nel "CAFONAL" dagostiniano e quotidianamente
mostrato dal corrispondente sito internet "DAGOSPIA". L'inizio del
film, scandito dall'agghiacciante tormentone dance di una remixata Raffaella
Carrà, sembra quasi irridere, capovolgendola (anche nelle inquadrature), la
"VITA SMERALDA" da "BILLIONAIRE", con tutta l'insostenibile
volgarità di certi arricchiti e l'inevitabile corollario del sottobosco di vip,
vippettine, starlettes e imbucati vari che gira loro attorno...per un mondo di
plastica!
E i cosiddetti
intellettuali, che fine hanno fatto? Risucchiati dal gorgo della mondanità,
svuotati da un contesto socioculturale regredito, si riuniscono per
piagnucolare la propria impotenza e incapacità di capire e cambiare il mondo
(ma forse non ne hanno più voglia), orfani di tanti valori perduti tra i quali
spicca il riconoscimento dell'importanza dell'arte, intesa come armonia
esteriore delle cose che si riverbera nell'armonia interiore delle persone. A
monumenti ed opere d'arte non resta altro che la mortificazione di una mera
funzione decorativa di sottofondo (come accade per le immagini che si scelgono
per abbellire la home page del proprio pc) e le fontane, al massimo, possono
servire per darsi una rinfrescatina alle ascelle...sarà un caso che la spogliarellista
Ramona e il turista asiatico, le uniche due persone che nel film mostrano
qualche segno di interesse per l'arte, siano destinate ad una morte precoce?
Cosa rimane dunque
del clima culturale e del fermento della "Roma felliniana", ricordata
con nostalgia da Sergio Caputo in "UN SABATO ITALIANO" (1983)? Ben
poco: una pletora di intellettuali falliti, un clima culturale dal turpiloquio
imperante (basta farsi una passeggiata mattutina sul Lungotevere per farsene
un'idea) e una Via Veneto spettrale e vuota nella quale lo stesso Jep, pur
ricalcando simbolicamente le orme del paparazzo Mastroianni, sembra aggirarsi
come un fantasma alla deriva.
Neppure gli uomini di
chiesa sanno più escogitare rimedi validi alle malattie dello spirito,
preferendo ripiegare sul più sicuro ed efficace potere consolatorio del cibo,
mentre dei politici, significativamente, in questo film non c'è nemmeno l'ombra
(forse mosso dalla pietà, Sorrentino ha preferito sorvolare); al loro posto,
sono i malavitosi a farsi carico dell'Italia ("SIAMO NOI A MANDARE AVANTI
IL PAESE", urla il superlatitante vicino di Jep subito dopo l'arresto)...
Ennesima
interpretazione magistrale di Toni Servillo, forse il miglior attore italiano
in circolazione, impeccabile nel dare corpo ad un personaggio niente affatto
semplice e scontato, un cinico misantropo (" NON MI BASTAVA PARTECIPARE
ALLE FESTE: VOLEVO ANCHE IL POTERE DI FARLE FALLIRE") capace di piangere
per finta ad un funerale (da antologia il breviario del "buon consolatore"
che Jep espone al pubblico) ma anche un uomo sofferente e malinconico,
amaramente consapevole del tempo trascorso e delle occasioni perdute ("MI
SENTO VECCHIO", confessa candidamente a Ramona, e lei, con altrettanta
schiettezza:"BEH, GIOVANE NON SEI!") ed in grado di recuperare,
inaspettatamente, lo struggente ricordo del suo primo amore come l' unico
momento di felicità vissuto; ottimi anche gli altri attori -numerosi i volti
noti chiamati ad interpretare ruoli secondari- tra i quali spiccano un Carlo
Verdone baffuto apprezzabilmente sotto le righe, una credibile Ferilli nel
ruolo di Ramona e il vecchio leone Herlitzka nei panni del cardinale
gastronomo.
Cammeos d'eccezione
per Antonello Venditti e per il relitto (!) della nave "Concordia",
che Jep va a "visitare" giusto per non farsi mancar nulla.
"LA GRANDE
BELLEZZA" è forse il film più crepuscolare e inquietante di Sorrentino ma
anche il più ricco di idee, un' opera che non si può certo definire
"facile" dato l'effetto altamente deprimente che non può non
suscitare nello spettatore (italiano), ma con la quale è veramente importante
confrontarsi. Nonostante la pillola sia indorata da una certa ironia beffarda e
dalle consuete invenzioni stralunate e surreali tipiche del regista (pur con
qualche eccesso, vedi il personaggio del figlio impazzito dell'amica di Jep e
certe criptiche immagini), rimane tutta la forza di una storia ai confini del
nichilismo.
Francesco Vignaroli
Concordo con Francesco sulla lettura del film. Certamente Sorrentino testimonia con questa sua ultima pellicola l'abbrutimento contemporaneo e trovo che l'allegoria della Concordia sia a questo scopo azzeccatissima! Dose eccessiva (spero) di nichilismo: non sembra che la bellezza ci salverà...
RispondiEliminaRodolfo