"L'ora della
mosca" è il titolo di un adattamento di Augusto Zucchi tratto da due
monologhi di uno dei più noti autori latinoamericani contemporanei, l’Argentino
Eduardo Pavlovsky drammaturgo, regista e anche psichiatra, dato fondamentale,
perché il testo nasce e vive proprio come indagine e messa in scena di ossessioni,
psicosi e circuiti mentali di colpe inconfessabili, in un intreccio teatrale
che è molto vicino al genere noir.
Nel 1976, in
Argentina, il generale Jorge Videla rovesciò il debole governo di Isabelita
Peròn (seconda moglie di Juan Peron che aveva governato il paese dal 1946 al
1955 insieme alla prima moglie Evita). Il dittatore scatenò contro i suoi
oppositori le “squadre della morte” formate da militari e poliziotti che
torturarono e uccisero migliaia di oppositori del regime e fecero scomparire
30.000 persone (desaparecidos) delle quali non si seppe più nulla. Spesso i
figli piccoli dei dissidenti massacrati e fatti sparire venivano adottati dai militari
e dati in adozione.
Caduto il regime, le
madri dei “desaparecidos”, nonne di quei piccoli adottati e ignari della loro
reale identità, divennero famose per il loro quotidiano recarsi nella piazza principale
di Buenos Aires, Plaza de Mayo per chiedere al nuovo governo di attivarsi e
rintracciare i loro nipoti. Il governo nominò un corpo di polizia specializzato
affiancato da assistenti sociali e volontari, e molti di quei piccoli, ora
cresciuti furono individuati, tolti di forza ai loro genitori adottivi,
complici un tempo dei massacratori e restituiti alle loro legittime famiglie.
La storia de “ L’ora
della mosca” è quella di un medico che, al tempo della dittatura militare
veniva chiamato a firmare i certificati di morte dei prigionieri politici, e
che durante una delle azioni, prende in adozione la figlia di uno di loro, la
quale col nuovo regime gli verrà sottratta dalle autorità per essere
riconsegnata alla famiglia di origine, ovverosia ai nonni. L’uomo realmente legato
alla bambina da un amore
paterno sviscerato,
sconvolto dal dolore per la separazione forzata, dopo anni si mette alla
ricerca della figlia. Dopo lunghe ricerche crede di averla ritrovata e la
invita a casa sua con il pretesto di un colloquio di lavoro. Lei arriva
all’appuntamento convinta di trovare un lavoro, ignara della trappolaincubo costruita
dalla follia disperata e a senso unico dell’uomo, tra digressioni e spietati
fotogrammi di realtà. Il torturatore non è un mostro, non è uno psicopatico, è uno
di noi, forse è in noi, nella normalità di un buon padre di famiglia. E questo
è il dato sconvolgente.
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Vita Matrone
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