Cortona
Mix Festival, Cortona, Teatro Signorelli. Martedì 30 luglio 2013
BOLLYWOOD, la più
grande industria cinematografica del mondo -con sede a Mumbay, la vecchia
Bombay-, compie 100 anni. 1000 film prodotti all'anno, 6 milioni di persone
impiegate nel settore: numeri che fanno impallidire perfino Hollywood, la Mecca
del cinema americano.
Per celebrare
l'evento, il "CORTONA MIX FESTIVAL" ha proposto il documentario
"BOLLYWOOD, 100 ANNI DI CINEMA E MUSICA" (in originale
"Bollywood, the Greatest Love Story Ever Told"), di Rakeysh Omprakash
Mehra e Jeff Zimbalist. La proiezione è avvenuta al Teatro Signorelli, al
termine del gran gala di danza dedicato alla stella Mara Galeazzi, qui
impegnata nel suo tour d'addio.
Quella tra Bollywood
e l'India è forse "la più grande storia d'amore mai raccontata", come
recita il titolo originale del documentario; storia del rapporto centenario tra
un popolo e una delle sue più tipiche ed immutabili forme d'espressione
artistica, un modo di fare cinema che sta cominciando pian piano a varcare i
confini nazionali per imporsi all'attenzione del resto del mondo -la stessa Rai
ha da poco programmato una rassegna dedicata alle produzioni bollywoodiane più
recenti-, incuriosito più che mai da un fenomeno di difficile comprensione,
tanto è profondamente radicato nella cultura indiana.
Quali tipi di film si
girano a Bollywood? Semplificando, potremmo affermare che, essenzialmente, il
cinema bollywoodiano sia costituito da un unico genere dominante, il musical,
declinato in vari sottogeneri che si differenziano tra loro unicamente per i
contenuti della trama messa al servizio (e non viceversa!) dei vari numeri
musical/danzerecci che si susseguono nei film; il sottogenere tipico è quello
del musical sentimentale, che propone burrascose storie d'amore tra giovani
spesso ostacolati dalle rispettive famiglie e dalle differenze di casta
-problematica, quest'ultima, tipica della società indiana-; vi sono poi storie
che attingono a generi più definiti e affini al cinema occidentale quali il
gangster movie, l'action movie e, più raramente, la fantascienza, per arrivare
poi ai film di ambientazione storica (con un particolare occhio di riguardo al
periodo della dominazione britannica e alla relativa, lunga marcia per
l'indipendenza) e a quelli dedicati ai problemi del paese ed alle
rivendicazioni sociali. In ogni caso, che si tratti di una supplica d'amore, di
un grido di ribellione contro le ingiustizie o di una sfida lanciata ad un
rivale negli affari o negli affetti, l'attore bollywoodiano pronuncerà la
propria battuta ballando e cantando. La musica permea la cultura e la vita
degli indiani ed è, di conseguenza, onnipresente pure nel loro cinema. Gli
attori e le attrici ridono cantando, piangono cantando, urlano cantando. La
musica è la modalità privilegiata attraverso cui esprimere le emozioni nel modo
più intenso possibile, ha una funzione liberatoria e, non di rado, catartica.
Nel momento dello spannung, ossia della massima tensione narrativa, le storie,
giunte sull'orlo dell'esplosione, si dirigono invece verso la camera di
decompressione rappresentata dall'immancabile spazio musicale che, oltre ad
assolvere una funzione di pura contemplazione estetica delle sbalorditive e
magniloquenti scene "musicodanzanti", si fa carico di produrre un
effetto di alleggerimento; in tal modo, lo spettatore riesce temporaneamente a
dimenticarsi della narrazione per lasciarsi trascinare dalla magia dei numeri
musicali, e c'è veramente il rischio di rimanere storditi al cospetto delle
vertiginose sarabande di colori -la cui varietà ben rappresenta l'eterogenea e
complicata società indiana- che tinteggiano coreografie regolate da meccanismi
di precisione svizzera, dove le individualità fatte di corpi danzanti si
annullano fondendosi a creare un unicum vivente molteplice e coeso.
Veniamo al
documentario. Suddiviso in 4 capitoli tematici, il filmato ha il difetto di
essere un prodotto confezionato più per scopi promozionali e dimostrativi che
esplicativi: infatti, quello che ci troviamo a guardare non è altro che un
lungo montaggio -80 minuti circa- di sequenze (né i film né le canzoni vengono
mai specificati) pescate dall'immenso serbatoio bollywoodiano, intervallate
soltanto da sporadici e brevi commenti di addetti ai lavori (registi,
produttori, attori; tra questi ultimi, si segnalano le partecipazioni di Anil
Kapoor, attore nel film di Danny Boyle "THE MILLIONAIRE", e della
splendida Aishwayra Rai, l'attrice indiana più famosa al mondo), capaci
comunque di fornire spunti illuminanti. La riflessione senz'altro più
interessante, contenuta in un capitolo significativamente intitolato "escapologia",
è quella operata da un regista di lungo corso, il quale offre la propria
soluzione alla domanda "perché a Bollywood si fa esclusivamente -o quasi-
cinema d'evasione?". La risposta, nella sua analisi sociologica spicciola,
è di una chiarezza disarmante: il popolo indiano, oppresso da un'esistenza
quotidiana dura e avara di soddisfazioni, non vuole rivedere al cinema la
rappresentazione della propria vita; ha bisogno piuttosto di sognare, ed ecco
perché anche le tematiche più scottanti e dolorose affrontate nei film di
Bollywood vengono sempre stemperate dal trattamento affabulatorio del musical.
Il cinema, quindi, è concepito come pura evasione, ed è privo di intenti
didascalici, edificanti o realistici. Molto interessante è anche l'affermazione
fatta da un altro regista, chiamato ad esprimersi sul valore sociale e
sull'utilità del cinema bollywoodiano: secondo l'intervistato, Bollywood è
l'unico antidoto efficace contro la perdita di identità causata dalla
globalizzazione; sono proprio le canzoni dei musical a conservare la cultura
indiana e a trasmetterla alle nuove generazioni, altrimenti in balìa di un
processo di frammentazione e confusione -mali tipici dei nostri tempi- cui né
la scuola né le istituzioni sembrano in grado di porre rimedio.
E' bene però
ricordare che Bollywood NON rappresenta la totalità delle produzioni
cinematografiche indiane: accanto ai registi allineati, sono esistite in
passato ed esistono tuttora figure dissidenti, ossia cineasti che realizzano le
loro opere a partire da ben altre basi stilistiche e concettuali , dimostrando
l'esistenza, tutt'altro che marginale, di un movimento alternativo all'
"impero dei sogni". L'esempio
più illustre è quello del grande Satyajit Ray, forse il regista indiano-non
bollywoodiano più famoso al mondo. Attivo a partire dagli anni '50, Ray si è
distinto per uno stile spoglio ed essenziale di stampo neorealista mediante il
quale ha realizzato la celebre "trilogia di Apu" -" IL LAMENTO
SUL SENTIERO", 1953; "APARAJITO", 1957; "IL MONDO DI
APU", 1959- , incentrata sulle vicissitudini di un giovane bengalese di
famiglia povera, seguito dall'infanzia -negata- fino alla vita adulta.
L'opposizione di Ray al sistema, soprattutto in quegli anni, è radicale: attori
non professionisti al posto delle star di bollywood, le scarne partiture del
maestro Ravi Shankar (virtuoso del sitar e padre di Norah Jones) in luogo delle
canzoni "leggere", la povertà mostrata dal vero e senza censure. Se
si vuole approfondire la conoscenza del cinema indiano, bisogna tenere conto
anche dell' "altra" India, sicuramente più in ombra ma anche più
accessibile per il pubblico occidentale.
Francesco Vignaroli
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