A
Palazzo Reale in collaborazione col comune di Milano e la Fondazione
Tre Oci, sono state selezionate e presentate una raccolta di 180
immagini o meglio, di testimonianze delle nostre vite, delle nostre
città dagli anni ’50 ad oggi. Autore di queste opere il Maestro
Gianni Berengo Gardin, inserito dalla rivista Moden Phothography tra
i “32 World’s Top Photographers” e vincitore
dell’ Ambrogino d’oro 2013. Instancabile
reporter della contemporaneità, non ama però descrivere se stesso
come un artista, ma piuttosto come un fotografo che ha cercato di
contribuire “allo svelamento del mondo in cui viviamo, nella
speranza di poterlo un giorno vedere e capire meglio”. Ha passato
in rassegna gran parte della storia d’Italia sotto l’obiettivo
vigile della sua macchina fotografica perennemente appesa al collo
–le epifanie avvengono all’improvviso e, se mai bisognasse
trovare un metro di misura per la bravura di un fotografo, la
dedizione a cogliere l’attimo sarebbe certamente una di queste. La
grandezza di cui sono portatrici queste fotografie non è solo nella
forza suggestiva dei suoi ritratti, negli scatti rubati al vivere
quotidiano o nella poetica dei paesaggi: essa risiede soprattutto nel
coraggio nostalgico di Berengo Gardin nel proporre il suo lavoro
sempre ed esclusivamente in analogico, rendendo omaggio
all’intramontabile bianco e nero. Senza trucchi e senza inganni
quindi, e con l’assoluta convinzione che se il contesto visivo può
riportarci ad una determinata epoca storica, nei volti e nei gesti
delle persone riprese si ripropongono le sventure, gli amori, le
emozioni, i drammi che, generazione dopo generazione, sono invece
eredità degli esseri umani e della ciclicità della vita. Ed è
forse per questo che, guardando queste immagini, è così facile
prenderne subito confidenza, averne una sorta di complicità. Queste
ci stanno parlando di esperienze, di tradizioni, di culture diverse
tra loro. Eppure è facile scorgere tra di loro dei richiami, dei
collegamenti che ci parlano della storia dell’umanità, quasi una
sorta di antropologia per il popolo. Non sono presenti dei echi a
qualsivoglia valori o esaltazioni a una qualsiasi ideologia, ma solo
uno sguardo indagatore sulla vicenda umana che ha un’urgenza di
essere comunicata e quindi condivisa.
La
mostra, che vuole essere una sintesi del immenso patrimonio
documentativo del fotografo, si sviluppa raccogliendo 180 fotografie
in nove macro sezioni.
Gente
di Milano ripropone uno spaccato di vita quotidiana di una
popolazione che vivendo nella grande città non è estranea a grandi
cambiamenti che Milano –almeno in Italia- ha sempre sperimentato
per prima, e quindi alla loro grande capacità di adattamento
all’infernale macchina del progresso. Ancora una volta Berengo
traccia il ricordo sia dei risvolti più allegri, sia quelli più
tragici della vita
cittadina.
Così come non si risparmia a raccontarci la vita intima delle varie
classi sociali, dei bagliori della mondanità, l’avvento di nuove
epoche o dei personaggi illustri che l’hanno vissute. A Milano così
come a Venezia (altra sezione che compone la mostra,
particolarmente importante per l’autore dal momento che ci ha
vissuto parecchi anni), che anche in questo caso ci propone insoliti
posizioni e porzioni della città che ci allontanano dalla solita
visione turistica.
Gianni
Berengo Gardin è un uomo che ha girovagato per il mondo, ma
diversamente da altri, non ha formato i suoi set soltanto
all’esterno, ma molto all’interno, fin Dentro le case. Un
tentativo di comprendere i modi di abitare degli italiani, uno studio
sul modus vivendi di una popolazione che –ancora una volta-
traspare più dalla potenza di un’immagine anziché da una
eccellente oratoria. Così come traspare l’allegria che si respira
in una casa-negozio napoletana, o l’essenzialità e l’accoglienza
di una casetta delle Dolomiti, così si percepisce il lavoro di
questo grande fotografo che ha varcato la soglia dell’intimità per
regalarci perle di vita.
Evocativa
di bellissime sensazioni è la sezione dedicata ai Baci che
racchiudono parecchi scatti attorno a questo tema molto caro
all’Autore. Baci che non accennano a interrompersi nonostante il
treno in partenza, baci pudici come si conviene che sia alla Scala di
Milano, baci nostalgici sulla banchina del porto di Trieste, o rubati
ai lati della strada… Piccole meraviglie che si schiudono
nonostante l’incedere vorticoso del quotidiano.
Ci
riportano burrascosamente alla realtà e all’impegno di vivere le
fotografie dedicate al Lavoro e ai lavoratori
soprattutto. Le trame che delineano queste immagini ci narrano della
condivisione in gruppo o con la propria famiglia delle fatiche, delle
disperazioni, anche col tentativo di denunciare queste situazioni di
precarietà. Ancora una volta, a tu per tu con l’umano, senza
scorciatoie o abbellimenti di sorta. Così come indaga il profano,
Berengo scruta anche la Fede Religiosità Riti che
raccoglie le immagini del confrontarsi con la spiritualità e col
proprio credo, che si stinge di quella sacralizzazione tanta cara
alle istituzioni, ma a vantaggio di una maggiore e migliore
umanizzazione.
Il
lavoro di Berengo Gardin ha portato più di una volta a denunciare lo
scempio di alcune vicissitudini che hanno caratterizzato la nostra
storia e che sono state infine –verso gli anni ’60- esasperate e
portate all’attenzione delle coscienze del grande pubblico. È il
caso del documento raccolto nei campi romanì in Italia, dal
suggestivo titolo La disperata allegria, dove il
sovraffollamento e scarse condizioni di igiene fanno da contorno a
una vitalità ed a un forte attaccamento alle tradizioni di questa
popolo nomade. Il progetto ambizioso di Berengo è questa volta
quello di scardinare gli avventati pregiudizi degli italiani nei
confronti di persone e di modi di vivere con cui non si aveva affatto
dimestichezza. Stranieri e matti, questi i grandi fantasmi della
popolazione italica all’epoca, che dovettero prendere confidenza
con i temi che portarono ai grandi cambiamenti politici di quei anni.
In Morire di classe il fotografo prova a far passare
le rivoluzionare idee di Basaglia e di sua moglie Franca, dove
l’istituzione del Manicomio viene descritto per quello che è: un
luogo in cui approdava solo la pazzia dei poveri, dei diseredati, la
miseria che non reggeva alla propria sofferenza. Ma soprattutto che
lo stato di degrado, di abbruttimento, dell’annientamento dei
malati, era prodotto dalla violenza dell’istituzione più che dalla
malattia in sé. Prima bisognava lavorare su questo aspetto. Poi,
forse, si sarebbe potuto incontrare la malattia.
A
chiudere la mostra Berengo Gardin reporter: le
collaborazioni con “Il Mondo” e “Touring Club Italiano” lo
han portato a viaggiare intorno al globo, e questo ha permesso al
fotografo di regalandoci racconti, luoghi, sguardi capaci di
regalarci un ironico stupore dinnanzi allo spettacolo di ogni cosa
che ci circonda.
Maria
Rosaria Grassa
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