Ciao
Giampiero, come prima cosa ti chiederei di presentarti e di raccontarmi in
breve della tua formazione d’attore.
Ho avuto il
privilegio unico e preziosissimo di formarmi lavorando. Non potrei augurare a
nessuno dei ragazzi della mia scuola una sorte migliore di questa. In ogni
ambito che concerne le mie attività ho potuto avvalermi di una esperienza
diretta e approfondire tutti gli aspetti che mi interessavano, fino ad elaborare un mio personalissimo
metodo di lavoro ed insegnamento. Inizialmente questo percorso potrebbe
apparire meno rassicurante di altri, in parte sicuramente lo è, ma credo che
faccia parte del mio modo di essere, istintivo e passionale. Io non ho mai
goduto di alcuna raccomandazione, quindi, dati i successi in entrambe le
attività, sono molto contento del
percorso scelto. Mi piaceva recitare ed ho imparato un monologo, mi piaceva
scrivere e mi sono scritto un monologo, mi piace la musica quindi scrivo,
dirigo ed interpreto spettacoli musicali con e per orchestre sinfoniche. Ogni
cosa che ho voluto fare l’ho realizzata e, fortunatamente, senza particolari
tribolazioni. Credo nella legge dell’attrazione perché personalmente agisce
nelle mie dinamiche in maniera strutturale: ho sempre comprato la guida del
Gambero Rosso per la mia passione per la buona cucina e ho finito per
collaborarci con 3 conduzioni di programmi, testimonial per le pubblicità e ironico
lettore della guida stessa; sono sempre stato un romanista sfegatato e mi hanno
chiamato per girare con Totti una nota pubblicità ambientata nello spogliatoio
della “mia” Roma a Trigoria; il mio musicista preferito è Puccini e l’ ho
interpretato in un bellissimo film di Stefano Reali, e dalla “Turandot” di
Puccini, l’opera di Seul mi ha commissionato la stesura del musical moderno. I
pensieri diventano cose. Potrei andare avanti per ore…
Teatro,
Cinema, Televisione… quale di queste attività preferisci e perché credi che
siano diverse?
Io nasco a teatro e
quello rimane il mio habitat naturale, un luogo ancestrale nel quale mi muovo
senza nessuno sforzo, con assoluta disinvoltura senza nessuna necessita di anteporre il “pensare” “all’agire”, in modo
assolutamente armonico, integrato e correlato allo spazio e alle urgenze. Il
palco è sicuramente il luogo nel quale ho trascorso più tempo nella mia vita
rispetto a qualunque altro luogo. Dalla macchina da presa invece, la “puttana santa” come la chiama Fassbinder,
sono stato adottato, e ho dovuto rapidamente imparare le regole e le dinamiche
di quel mondo e di un modo nuovo di usare la mia arte in modo forse più precipuo,
concentrato e sicuramente “anaerobico”. Nel cinema necessiti di “insight”e di una capacità di lettura
energetica maggiore perché mancando il feedback con il pubblico, se non quello
occasionale e forzatamente concentrato della troupe, sei sprovvisto di
strumenti correttivi per indirizzare la performance in modo tale che tu possa
piegare in tuo favore o a favore dell’economia di fruizione dell’opera la tua
interpretazione, ma questo non deve portare a pensare che tutto sia più freddo
e cristallizzato: in realtà l’atto è comunque molto emozionale, nonostante la
possibilità di ripeterlo.
Spesso gli apparati
scenotecnici tendono a sprofondarti con più decisione nell’atmosfera ed avere
un senso della storia e del contesto più ancorato rispetto a quanto non avvenga
sul palco di un teatro, dove gli spezzati e il “live” prestano il fianco ad una
continua ingerenza del reale e del quotidiano. Sul set mi concentro molto di
più, ma come ti dicevo prima, sul palco neanche penso a ciò che faccio quindi
sono permeabile a qualunque intrusione: dal cappello della signora in quarta
fila al dentista del giorno dopo. Sicuramente resto un animale da palcoscenico
ma la sensazione al principio di tradire il teatro con il cinema è stata
soppiantata ormai stabilmente dalla sensazione di essere definitivamente
bigamo.
Per quanto riguarda
le differenze mi pare il caso di valutare prima le contiguità. In entrambe
bisogna essere efficaci, intensi ed energetici ma mutano le modalità: in teatro
il continuum del tessuto drammaturgico ti aiuta da un lato ma dall’altro ti
preclude una infinità di sfumature vocali e mimiche che un obiettivo riesce
invece a cogliere. Ad ogni modo, sia nel teatro che nel cinema, si può e si
deve effettuare una prestazioni di qualità. Io non ho mai creduto alla favola
dell’attore teatrale che non sa lavorare in video, se vale una differenziazione
classista allora, può essere più difficile il contrario. Ma se un attore è
capace, è capace ovunque, se non lo è, palco o set sono assolutamente ed
ugualmente proibitivi.
Qual
è il personaggio che hai interpretato che più ti è rimasto dentro e perché?
Rispondo senza
esitare. Il protagonista de “Il grigio”.
Ma mi chiarirò specificando che non è corretto dire che “Il grigio” mi sia rimasto dentro, perché sarebbe un controsenso in
termini. Sono io ad essere rimasto dentro al “grigio”, non viceversa, e sempre io sono cresciuto in lui e con
lui. Io non avverto nessuna dicotomia o nessuna frattura interpretativa. Tra me
e la maschera de “il grigio” non c’è intercapedine. Nella mia scuola c’è
incorniciato un vecchio manifesto di una delle prime rappresentazioni
dell’estenuante monologo al teatro Metropolitan di Ancona, datato 1991. Mi pare
che anche la fotografia sia cangiante e che il mio viso da diciannovenne
stampato sul 70x100 cambi ogni giorno. Un po’ come quello di Dorian Gray, solo
che al contrario di quello di Wilde, invecchio anche io.
Nella
tua carriera c’è stato un incontro che ha cambiato la tua vita?
Incontri
professionali molti, e ognuno mi ha lasciato qualcosa. A Giorgio Gaber sarò
sempre legato per “Il Grigio”,
monologo che recito da più di 20 anni. Ma ogni incontro nella vita di un
individuo può essere importante, se non determinante, e, spesso, neanche ci
rendiamo conto di quanto nella trama delle nostre storie il semplicemente
entrare per qualche istante nel disegno di un altro possa avere implicazioni
decisive per il nostro destino. Ma l’incontro che sicuramente ha indirizzato e
orientato la mia vita e la ma professione è stato quello con mio padre che, pur
non provenendo dall’ambiente del quale faccio ora parte, non solo ha sempre
rispettato le mie intenzioni ma mi ha sostenuto in ogni battito d’ali. E sono
certo che, anche adesso che non c’è più, continui a farlo in ogni modo.
Sei
anche regista, puoi parlarmi dei tuoi lavori in questo senso?
Regista teatrale con
uno spiccato senso del cinema ed un linguaggio impattante ed essenziale.
Utilizzo la musica per la prossemica e la malgama, e in verità come tessuto
connettivo di qualunque mio allestimento e, quando possibile nell’accezione più
ampia e nelle declinazioni più avventurose, musicalità dei versi e della scena,
ritmo della parola e dei corpi. Tendo a correlare gli allestimenti con apparati
scenotecnici essenziali, facendo in modo che le strutture architettoniche siano
le parole e i personaggi che le veicolano. Anche in ambito registico sono
curioso, quindi spazio dalle ombre cinesi alle scene borghesi. Generalmente
tendo ad essere un regista “visibile” con un suo stile marcato: che sia mio un
allestimento si vede e si sente in ogni cosa,
e mi si percepisce ovunque, con tutti i pro e i contro che questa
forzata scelta comporta.
Dal
tuo curriculum emergono delle particolarità anche divertenti, per esempio
emerge che tra le lingue che parli ci sono anche molti dialetti. È vero che sai
parlarli tutti? Qual è quello che ti piace di più?
Sì, sono
assolutamente “diglottico” in questo senso. Credo che questo dono sia frutto di
un “orecchio” particolarmente dotato che a volte mi porta a veri e propri
fenomeni di camaleontismo sonoro. Una sorta di “Zeligghismo” che mi porta, se a
stretto contatto con persone che parlano con una cadenza spiccatamente
regionalistica, immediatamente ad imitarle. Parlare i dialetti vuol dire
imitare e credo che sia una propensione innata come imitare i professori a scuola o i cantanti al
karaoke, ma certo è che interpretare molte commedie di Eduardo De Filippo ti
rende il napoletano familiare, così come il siciliano da Pirandello etc… Ho
interpretato in toscano Giacomo Puccini ne “Il grande Caruso” e una
spassosissima “Mancini legge la guida” per il Gambero Rosso nella quale
utilizzavo l’accento dello chef in questione di volta in volta; dal tedesco al
francese, passando per il romanesco e il piemontese. L’utilizzo del dialetto
oltre ad essere molto divertente è soprattutto utilissimo per dare veridicità
ai personaggi, che in questo modo, nella giusta veste sonora sono
immediatamente linkati al luogo della storia.
Ti
piace anche cantare vedo, qual è la tua canzone preferita?
Mi piace cantare,
suonare, dipingere, cucinare e scrivere. Sono curioso e mi piace mettermi
continuamente alla prova. Mi diverte. Per quanto riguardo il canto me la cavo
abbastanza bene, dati anche gli spettacoli di teatro – canzone che interpreto, o, ancor di più, per le pièce con le
orchestre sinfoniche con le quali collaboro stabilmente da anni. Ma resto
sempre un attore che canta, non un cantate che recita e credo debba esserci sempre un umile distinguo.
Il canto per un attore è una disciplina assolutamente fondamentale, non per
inseguire il sogno wagneriano di un compendio di tutte le arti, ma per non
precludersi, altrimenti, un repertorio vastissimo. E’ inconcepibile che un
attore non sappia cantare, basta guardare la presentazione degli oscar ogni
anno per vedere quanto i nostri colleghi d’oltreoceano facciano entrambe le
cose con i distingui di cui sopra ma con la stessa disinvoltura. Sicuramente le
mie canzoni preferite sono quelle che scrivo io.
“I Segreti di Borgo Larici” e “Angeli”. Si tratta di due fiction
presentate al Roma Fiction Fest… che ruoli interpreti in queste fiction e quale
personaggio preferisci tra i due?
Sono progetti
profondamente diversi, come diametralmente opposti sono i ruoli che in esse ho
il piacere di interpretare: ne “I Segreti di borgo larici” vesto i panni
minimali del Dott. Luigi Conti, un umile medico di campagna amico degli operai,
premuroso e rassicurante, mentre in “Angeli” sono Walter Semiaza, un sulfureo e
ricchissimo faccendiere con villa baronale e collezione di Ferrari, che
contenderà a Raoul l’amore della bella principessa Vanessa…
Un comprimario solido
che intercetta la simpatia del pubblico in un inusuale thriller-melò in costume
contro un antagonista oscuro inviso al pubblico che ordisce trame in una
toccante favola moderna… davvero difficile scegliere. Il Diavolo è un ruolo che
ho interpretato spesso in vari allestimenti de “L’Histoire du soldat” e ne “Il demone e la fanciulla”, quindi ne
conosco sfumature, gamme e difetti tragici strutturali. La intuibile difficoltà
sta nel non andare mai in over-acting e non indulgere all’autocompiacimento. Io
sono un attore dominante con l’abitudine ad aggredire con una certa ferocia le
linee di transizione, quindi l’operazione di contrazione e mitigazione di
alcune dinamiche energetiche deve essere ancora più rigorosa rispetto a ruoli
miti in minore come il dottor Conti dove è letteralmente impossibile sconfinare
in alcuna forma di forzatura interpretativa, dato anche il materiale testuale.
I “buoni” mi capitano di rado, quindi sarebbe come chiedere ad un bimbo se vuole più bene a mamma o papà…
Come
è stata la presentazione al Roma Fiction Fest?
Divertente. Sono
stato al Festival per due giorni consecutivi per presentare i lavori di cui
parlavamo. Tanti colleghi da rincontrare o salutare, il fascino del carpet, un
po’ di caos, tutto molto glamour. Spero che, al di là di questo, possano essere
utili per il lancio delle serie. Di “Angeli”
c’è stata l’anteprima con l’intero film proiettato, per “I Segreti” il giorno successivo è stato mostrato un lungo promo e
un divertentissimo backstage. Credo che abbiano incuriosito e divertito tutti.
Da quello che leggo sono stati accolti con entusiasmo anche dalla critica,
quindi non resta che attendere le messe in onda.
Cosa
significa essere attore oggi secondo te?
Oggi come ieri,
essere attore vuol dire intraprendere un percorso che ti sceglie prima ancora
che creda tu di averlo fatto. Essere attore è una droga, una croce, un cilicio
e la più somma delizia. Un dono celeste che ti permette di vivere cose che ai
più non sono concesse. Attori si nasce e in un certo senso esserlo è
liberatorio perché non si può fare altro, per dirla alla Nietzsche, che tentare
di “diventare ciò che si è”, e far in modo che l’essere attori diventi anche il
tuo mestiere passando dal “sono” al
“faccio”.
L’essere attore vuol dire tentare di far in modo che ciò che nutre la
tua anima possa nutrire anche il tuo stomaco, pagare i tuoi vizi, le tue
bollette, le tue vacanze, le sigarette, le medicine, i tuoi libri e la tua
spesa quotidiana. Essere un attore di certo non può voler dire attendere lo
squillo di una agenzia che ti scelga, poi quello con il quale ti chiama per un
colloquio, poi quello della casting che chiama l’agenzia per un provino, poi
quello per essere riconvocato per un call back, poi quello della produzione…
No. Non può e non deve essere questo! Essere attore vuol dire fare, fare e fare
di tutto e proporsi facendo, non attendendo o imprecando da una torre isolata
gli altri che “sicuramente più fortunati o raccomandati lavorano” o il destino
che ti ha fatto nascere in provincia o il karma negativo che ti ha voluto
vicino ad un ruolo etc. Essere attori vuol dire togliersi di dosso ogni
atteggiamento di livore o vittimismo ed essere positivi entusiasti ed umili
perché, come dice un mio carissimo amico e notissimo regista, “nessuno vuole attorno gente alla canna del
gas”.
Progetti
futuri?
Il 22 novembre sono
al Teatro Alighieri di Ravenna per una reading di Puccini in un progetto sulla
voce attoriale e cantata condiviso con e Andrea Bocelli, amico carissimo, del quale
ho recentemente inciso le sue poesie (bellissimissime!!!). Poi spero di tornare
presto a Torino a girare la seconda stagione de “I Segreti di borgo larici” perché abbiamo creato un gruppo
meraviglioso. Penso che non avrei dovuto dire questa cosa per scaramanzia dato
che la messa in onda è prevista solo per febbraio e da essa dipenderà il
continuo della serie, ma mi vedo già a Torino circondato da amici cari a
girare. Lo visualizzo quindi sarà così (ride).
Curata
da Stefano Duranti Poccetti
Nessun commento:
Posta un commento