Presentiamo
la recensione sullo spettacolo “L’ultimo nastro di Krapp”, scritta dalla nostra
Daria D. e con traduzione in inglese della nostra stessa collaboratrice.
Foto Lucie Jansch |
La Triennale di
Milano e il CRT Milano riaprono le porte del Teatro dell’Arte con il personaggio ormai mitico di Krapp,
creato da Beckett nel 1958, e il cui concetto drammatico non smette di
affascinarci per la sua contemporaneità
e genialità. Insomma un’opera che
è sempre moderna di per sé, perché
l’arte quando è Arte non ha bisogno di reinvenzioni ma solo di continuare a
comunicarci la sua bellezza e profondità.
Questo Krapp, che
nelle intenzioni di Beckett è un uomo ormai anziano, uno scrittore mezzo
fallito, solo e disilluso, che ripercorre momenti del suo passato ascoltandoli
da registrazioni fatte nel corso della sua esistenza, è interpretato e diretto da Robert Wilson.
Nonostante la bravura di Wilson, Krapp
non comunica solitudine né
rabbia, dramma o comicità.
Prevale l’esteriorità più che la
verità dell’interpretazione.
Immobile nei suoi sguardi che cercano il
passato e quando lo trovano lo deridono, lo distruggono come se quel passato
non fosse stato suo, ma di un altro, oppure ondeggiante, a causa dell’ alcool,
o per il retaggio di coreografo di Wilson,
Krapp non emoziona, e ci lascia poco convinti.
Krapp non è mai
veramente clown, eppure Wilson secondo le indicazioni di Beckett si dipinge la
faccia di bianco, ma non di rosso il naso, chissà perché, dopo presunte bevute
nel retro, da cui esce saltellando allegramente. Allora quella maschera volutamente usata
forse per impressionarci, che senso ha? E se quel viso bianco fosse stato,
secondo Beckett, oppure come nuova idea drammatica, il viso emaciato e pallido di un uomo malato,
che raramente esce da casa e se esce, magari lo fa dopo il tramonto per andare
a sbronzarsi, in solitudine, e il freddo della notte gli fa diventare il naso
congestionato? E le scarpe troppo grandi di cui parla Beckett? Wilson non le ha
prese in considerazione, per fortuna. Così facendo, però, ha lasciato il clown
a metà, incompiuto. E quando mangia le banane, perché quella tremenda
insopportabile lentezza, quel voler rendere esasperante un gesto che di per sé
non lo è? Krapp mangia le banane, e allora?
Questo Krapp non è buffo, e nemmeno
drammatico. Non riusciamo a “sentirlo” e
purtroppo l’unica cosa che sentiamo è un
sonoro spaventoso di pioggia sulle lamiere, che rimbomba per ben venti minuti
iniziali. Troppi. Un sonoro che copre molti vuoti.
Krapp non è nemmeno mai un uomo solitario, non
si capisce se parla a noi spettatori o a se stesso, e anche l’ambiente dove
vive è generico pur essendo molto impegnativo, e ci viene spontanea la “banale”
domanda, se Krapp sia a casa sua o in un ufficio o in prigione. Perché domande tanto “banali” come: A che
scopo? Come? Dove? Quando? Perché?
molto spesso, non hanno risposta?
Non dovrebbero essere alla base di ogni testo teatrale, messa in scena e
interpretazione? Anche delle più vecchie sperimentazioni?
E non è nemmeno pazzo, questo Krapp nonostante
si atteggi a tale, usando gesti teatrali d’effetto, pause studiate, piroette e
balzi, grugniti e urletti, cambi di umore.
Dov’è nascosto quel
Krapp che arrivato quasi alla fine della vita, se ne sta in solitudine,
bevendo, rimuginando, maledicendo, mangiando banane e riascoltando bobine su
cui ha inciso la sua vita, quella che pensava felice e che ora gli appare vuota
e superficiale, da cui sembra prendere le distanze come se ascoltasse la vita
di qualcun altro? Sembra… perché chi, sulle soglie della morte, non vorrebbe ritornare indietro a rivivere
qualche momento felice?
Forse Beckett non voleva scrivere un dramma,
in fondo, avere ancora poco da vivere, passarlo in una semi prigione, mezzi
ubriachi, imprecando e prendendo in giro se stessi e il mondo intero, senza
nessuno che ci ascolti, spellando banane, non è un dramma, o mi sbaglio? Forse
una farsa? Ma allora non avevamo bisogno di Beckett per scoprire che la vita è
la farsa più raffinata che sia mai stata scritta.
Ma quella, porta la
firma di Dio.
Ecco
a seguito la traduzione…
Foto Lucie Jansch |
“Krapp's last tape” by Samuel
Beckett
Directed and performed by Robert
Wilson
Sets and light design by Robert
Wilson
CRT,
Triennale Teatro d'Arte, Milan. October 20, 2013. Opening night
A project by Change Performing
Arts
Production
of CRT Milan, Centro Ricerche Teatrali. Di Daria D.
Milano Triennale and CRT reopen the Teatro dell'Arte
with the mytical character of Krapp, created by Beckett in 1958 whom dramatic
concept never ends to fascinate us, being so contemporary and genial. A play
that has modernity per se, because art when is Art, doesn't need inventions of
sorts in order to continue to communicate its beauty and deepness.
This Krapp. who in the mind of Beckett is an elderly
man, a sort of failed writer, lonely and disenchanted, recounting moments of
his past taped during his lifetime, is performed and directed by Robert Wilson.
In spite of Wilson's talent, Krapp doesn't comunicate solitude nor rage, drama
nor comedy. We feel the exterior of the interpretation more than the truth.
Static his look is searching for the past and when he
founds out about it, he scorns it, trying to ruin it as like that past wasn't
belonging to him. Or sometimes, swaying because of alcohol or Wilson's heritage
of choreographer, Krapp is not able to
moving us, rather he leaves the spectators a little bit disappointed.
Krapp is never really a clown, though Wilson under
Beckett's directions whitens his face, but not reddens his nose, who knows why,
after boozing in the back of a pigeon hole library, from whom he pops out
happily dancing. So, what's the purpose of that white mask? To make an
impression on us? How about interpreting that symbolic mask as the pale and haggard face of an old man,
maybe sick, who gets out only in the night, to get drunk, lonesome and with his
nose reddish for the cold air? How abou the extra size shoes used in the
original text? Thank God Wilson didn't take into consideretion. But this choice
leaves his clown cripple, unaccomplished.
When he eats the bananas, why such dreadful
exasperating slowness, although this in itself is not?
Krapp eats bananas, so what?
This Krapp in not funny, nor dramatic. We find it hard
to “feel” him, and unfortunately the only thing we hear is a tremendous sound
of the rain falling on the metal sheet, lasting the first twenty minutes. Too
much. A sound that covers many voids.
This Krapp in never either a solitary man: is he talking to himself or to us, the
audience? Even the location although very demanding, is generic. So we ask the
simple trivial question: where is Krapp? In his house? In an office? Or in
prison?
Why trivial questions like: How? Where? Why? What?
When? very often are not answered? Shouldn't they be the foundations of every
dramatic text, staging and performance? Also
at the basis of the oldest experimentations?
He is not even crazy, even though posing as such,
using showy gestures, studied pauses, pirouettes, leaps, grunts and shrieks,
changes of mood.
Where is hidden Krapp, now almost at the end of his
life, leaving alone, boozing, mumbling, cursing, eating bananas and listening
to spools on which he recorded all his life, what he tought was happy and now
appears empty and superficial? He almost trys to keep the distance from his
past life. But who wouldn't, at the
death's door, going back to revive some happy moments?
Maybe Beckett never intended to write a drama,
because, after all, being at the end of life, secluded in a kind of prison,
half drunk, cursing and mocking himself and the rest of the world, peeling
banans, what kind of drama is it? Am I wrong?
Maybe is just a
farce? But then, we didn't need Beckett to discover that life is the
most refined farce ever written.
Signed by GOD.
Daria D.
Translation from Italian by Daria
D.
Domenica
20 ottobre 2013 – ore 19.30
Robert
Wilson
in
L’ULTIMO
NASTRO DI KRAPP
di
Samuel Beckett
regia,
scene e ideazione luci Robert Wilson
costumi
e collaborazione alle scene Yashi Tabassomi
lighting design A.J. Weissbard
sound design Peter Cerone e Jesse
Ash
collaborazione
alla regia Sue Jane Stoker
assistente
alla regia Charles Chemin
direttore
tecnico Reinhard Bichsel
supervisione
luci Aliberto Sagretti
ingegnere
del suono Guillaume Dulac
direttore
di scena Thaiz Bozano
capo
macchinista Violaine Crespin
make
up Claudia Bastia
assistente
personale di Robert Wilson Julian Mommert
coordinamento
di produzione Laura Artoni
un
progetto di Change Performing Arts
commissionato
da Grand Théâtre de Luxembourg, Spoleto52 Festival dei 2 Mondi
prodotto
da CRT Milano I Centro Ricerche Teatrali
spettacolo
in inglese con sottotitoli in italiano
durata 70 minuti senza intervallo
Recensione davvero superficiale e intrisa di giudizi personali che si discostano da un'analisi obbiettiva dello spettacolo.
RispondiEliminaConsiderando anche la risposta entusiastica del pubblico in sala, evidentemente il regista/interprete ha saputo mettere in scena il testo di Beckett, di rara complessità, in modo magistrale, coinvolgendo e rendendo l'intenso flusso intimistico del protagonista, attraverso una scelta tecnica e scenografica, di suoni e luci che caratterizza la sapienza teatrale sperimentale di Wilson.
Le considerazioni, soprattutto finali, a titolo personale, dell'autrice della recensione sono fuori luogo, superficiali e imprecise. E non rendono giustizia né allo spessore del testo né tantomeno alla riuscita della messa in scena nel suo complesso.