Napoli, Galleria Toledo. Dal
5 novembre al 17 novembre 2013
Da martedì 5
Novembre, fino a domenica prossima,17 Novembre, il Teatro “Galleria Toledo” di
Napoli diventa la cornice di “Fujtevenne”, testo teatrale della bravissima e
pluripremiata attrice Marina Confalone, nata nella “scuola” del maestro Eduardo
De Filippo. Una cornice, quella appunto della “Galleria Toledo”, che ben si
presta al lavoro portato in scena dalla Confalone: il teatro, infatti, rappresenta
a Napoli, uno dei più importanti centri di innovazione artistica, offrendo al
pubblico riadattamenti in chiave moderna di testi classici o, come nel caso di
“Fujtevenne”, nuovi esempi di drammaturgia contemporanea. Una pièce composta da
tre episodi che, senza intervallo, si susseguono l’un l’altro, seguendo una
sorta di fil rouge, e che hanno come sfondo Napoli: una città vista in tre
contesti socio-culturali differenti, ognuno dei quali esprime e racconta un
amore-odio diverso per la propria città.
Nel primo episodio infatti, intitolato “I cani”, Rosa, una donna ormai sfiorita ed inebetita a causa di vicende familiari alquanto dolorose vissute durante la sua infanzia, si ritrova il giorno del suo matrimonio ad aver un dialogo con il padre, un boss della camorra che ha imposto alla stessa le nozze con un suo “sottoposto”: neanche la ribellione della figlia, subito sedata, convince il padre a desistere dal suo progetto, simbolo di una Napoli che non riesce e non può opporsi al “sistema”. “Il sorriso del pescatore”, che dà il titolo al secondo episodio, è quello impresso sul volto di una famosa scultura di Vincenzo Gemito (che tra l’altro scolpì anche il volto di Raffaele Viviani),ascoltatore dei pensieri, delle sofferenze nascoste, della piccola Alice che, in attesa che la propria madre finisca di giocare a carte con le amiche, non curandosi della figlia, confida a Totonno, il pescatore che sorride, la terribile verità circa un furto avvenuto nella sua abitazione. Alice è l’archetipo della solitudine, di chi vive sulla propria pelle l’abbandono e la non curanza di chi invece dovrebbe dargli affetto: potrebbe essere l’interprete, a mio avviso, di una Napoli lasciata a sé stessa, senza cura, che sfoga le proprie frustrazioni con chi, purtroppo, non può risponderle. Nel terzo ed ultimo episodio quest’insofferenza per una città che non ha niente o poco da offrire raggiunge il proprio apice: non a caso il titolo è appunto “Fujtevenne”, chiaro rimando alla stessa parola pronunciata dal maestro Eduardo De Filippo incitando i giovani napoletani a trovar fortuna fuori dalle mura partenopee. In uno struggente ed emozionantissimo quadro, vengono fuori i pensieri di un giovane filosofo napoletano che, sfinito e svilito da ciò di quanto più negativo la città gli ha offerto, nella sua discesa verso il vuoto, ripercorre i suoi pensieri e le sue sensazioni verso una Napoli arida, vuota, ma piena del “calore della propria gente”. Uno sguardo nella sua memoria, intervallato dal dolore della madre che, per il troppo dolore, è diventata una clochard che vive al freddo e al gelo.
Nel primo episodio infatti, intitolato “I cani”, Rosa, una donna ormai sfiorita ed inebetita a causa di vicende familiari alquanto dolorose vissute durante la sua infanzia, si ritrova il giorno del suo matrimonio ad aver un dialogo con il padre, un boss della camorra che ha imposto alla stessa le nozze con un suo “sottoposto”: neanche la ribellione della figlia, subito sedata, convince il padre a desistere dal suo progetto, simbolo di una Napoli che non riesce e non può opporsi al “sistema”. “Il sorriso del pescatore”, che dà il titolo al secondo episodio, è quello impresso sul volto di una famosa scultura di Vincenzo Gemito (che tra l’altro scolpì anche il volto di Raffaele Viviani),ascoltatore dei pensieri, delle sofferenze nascoste, della piccola Alice che, in attesa che la propria madre finisca di giocare a carte con le amiche, non curandosi della figlia, confida a Totonno, il pescatore che sorride, la terribile verità circa un furto avvenuto nella sua abitazione. Alice è l’archetipo della solitudine, di chi vive sulla propria pelle l’abbandono e la non curanza di chi invece dovrebbe dargli affetto: potrebbe essere l’interprete, a mio avviso, di una Napoli lasciata a sé stessa, senza cura, che sfoga le proprie frustrazioni con chi, purtroppo, non può risponderle. Nel terzo ed ultimo episodio quest’insofferenza per una città che non ha niente o poco da offrire raggiunge il proprio apice: non a caso il titolo è appunto “Fujtevenne”, chiaro rimando alla stessa parola pronunciata dal maestro Eduardo De Filippo incitando i giovani napoletani a trovar fortuna fuori dalle mura partenopee. In uno struggente ed emozionantissimo quadro, vengono fuori i pensieri di un giovane filosofo napoletano che, sfinito e svilito da ciò di quanto più negativo la città gli ha offerto, nella sua discesa verso il vuoto, ripercorre i suoi pensieri e le sue sensazioni verso una Napoli arida, vuota, ma piena del “calore della propria gente”. Uno sguardo nella sua memoria, intervallato dal dolore della madre che, per il troppo dolore, è diventata una clochard che vive al freddo e al gelo.
E’ un testo profondo,
che lascia tanti spunti di riflessione nel pubblico, ma soprattutto offre
diverse situazioni in cui lo spettatore può configurarsi e completare la
propria interpretazione con considerazioni personali. Interpretazione a dir
poco ottima e impeccabile per una Marina Confalone che, grazie al suo innato
talento e alla sua navigata esperienza,riesce senza alcuna sbavatura a calarsi
in poco meno di un’ora e trenta, in tre personaggi completamente diversi l’un
l’altro, senza darci l’impressione che siano interpretati dalla stessa persona:
non a caso, il compito dell’attore-attrice è proprio questo. Degni di merito,
coloro i quali, molto abilmente, hanno accompagnato l’autrice-attrice-regista
Confalone in questo intenso percorso: Giovanni Martino, esperto e maturo
attore, nelle vesti del padre-boss, e del giovane ma già bravo e con ottimo
potenziale, Mario Di Fonzo ,nel ruolo del filosofo suicida. Un plauso
particolare a Pietro Colletta, autore e compositore delle musiche, elemento
importantissimo dello spettacolo. Grazie alla sua opera, il pubblico è
trascinato fin dall’inizio, parafrasando Augè, in un “non-luogo”, in cui si
resta sospesi, affrancati, proiettati totalmente nel dramma dei personaggi.
Francesco Pace
una produzione Opera Teatro
e Il Teatro produzioni/Galleria Toledo
testo e regia Marina
Confalone
con Marina Confalone,
Giovanni Martino, Mario Di Fonzo
bravooooooooooooooooo
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