È passato un po’ di tempo, ma ci sembra comunque interessante pubblicare
questo articolo su un interessante spettacolo andato in scena in occasione dell'ultima
Biennale di Venezia…
Il 42° Festival Internazionale del
Teatro 2013, diretto dal regista spagnolo Àlex Rigola e organizzato dalla Biennale di Venezia, ha visto cinquanta appuntamenti – tra
spettacoli performance e incontri – in dieci giorni di programmazione, dal 2 all’11 agosto.
La Biennale Teatro è sicuramente il più longevo e conosciuto centro
internazionale delle arti sceniche, che quest’anno ha vantato la presenza di
alcuni dei più importanti nomi della regia contemporanea come: Alex Rigola, Romeo Castellucci, Motus, Accademia degli
Artefatti, Ute Lemper ecc. Questi sono solo alcuni dei nomi di compagnie e
registi, presenti a questa edizione, che hanno portato i loro lavori nelle
location più conosciute della Biennale (Ca Giustinian, Teatro delle Tese,
Teatro Piccolo Arsenale).
Parallelamente alla programmazione e agli incontri con gli artisti, si è dato vita al progetto “Biennale
College-Teatro”. Con questa proposta, gli
organizzatori si sono focalizzati sulla
formazione di giovani artisti, in tutti
i campi: danza, musica, teatro, cinema.
L’obiettivo è stato quello di coinvolgere “talenti in erba” provenienti da
tutto il mondo (Stati Uniti, Uruguay, Serbia, Macedonia, Messico, Europa ecc)
offrendo loro la possibilità di lavorare sotto la guida di maestri di calibro
internazionale come: Gabriela Carrizo, Jan Lauwers, Angelica Liddell, Krystian
Lupa, Claudio Tolcachir, per l’allestimento di un breve spettacolo dedicato al
confronto con i classici, in particolare con Shakespeare e i suoi personaggi
shakespeariani.
I percorsi offerti sono stati ben 17 tra workshop di regia, recitazione,
danza, drammaturgia, scenografia, masterclass e critica.
In questo panorama variegato di spettacoli, incontri e laboratori, è risaltato per originalità un progetto alternativo
sia come logica, sia come approccio alla scena, che rimane unico nel suo genere
tra tutte le proposte presentate durante la Biennale: lo spettacolo di David
Espinosa con Mi gran obra (un proyeto
ambicioso).
David Espinosa è un giovane regista e attore spagnolo (classe 1976) e il suo lavoro,
Mi gran obra, è nato principalmente da una domanda che Espinosa si è posto:
“Che cosa farei se avessi il più grande teatro del mondo, trecento attori,
macchine, una rock band, un’orchestra militare, animali e un elicottero? Una
grande opera!”
Da questo presupposto il regista spagnolo ha progettato il lavoro non
avendo però a disposizione niente di tutto ciò (né attori, né palcoscenico, né
macchinisti, né effetti speciali). Questa è la sua utopia e ha cercato di
realizzarla con i mezzi che aveva a disposizione, ottenendo un risultato
decisamente fuori dall’ordinario.
Cà Giustinian accoglie il pubblico al primo piano, un gruppo ristretto di
persone. L’attesa è in atrio, in questo spazio bianco l’attenzione è rapita da
un particolare. C’è una rigida valigia nera, con una sorta di passerella che
esce verso l’esterno – è come un ingresso per “la scena” – e tanti, tantissimi miniattori
inseriti nel loro microcosmo in un mondo inventato di sana pianta in una scala
alquanto ridotta (1:87).
Subito poco David Espinosa invita ad ascoltare una voce registrata che esce
dall’altoparlante di gomma di un iPhone per raccontarci il progetto e
introdurci allo spettacolo. Dopo di che il pubblico è suddiviso, in ordine d’altezza crescente (reclutata tra i bassi!), e
fatto accomodare all’interno di una stanza,
non molto grande, con un tavolino al centro e
una serie di panche, sedie e puf, organizzati in modalità di “gradinata”. Nei
posti più distanti ci sono in dotazione dei minibinocoli. Espinosa si accomoda
davanti al tavolo bianco, sopra di esso due casse, alcuni elementi scenici e le
sue mani che, con un’eleganza estrema, compongono e muovono i fili delle scene
che ci vengono raccontate.
Avete mai visto un regista che fa anche il tecnico luci, la scenotecnica,
gli effetti speciali e le musiche?
Espinosa interviene continuamente, manipolando e stravolgendo ogni
narrazione possibile, mettendo in scena ciò che vuole, agendo spesso per
moltiplicazione e poi per sottrazione crea questo ridottissimo teatro della vita
dove si incontrano tante storie.
Rannicchiato nei
puff, con gli sguardi attenti e rapiti, il pubblico è proiettato in un mondo a
parte, il mondo di “Gulliver”. Siamo come dei giganti in mezzo a un micromondo
che ricalca le fasi della nostra vita. Le scene sono le più differenti: dalla
nascita alla crescita, all’amore, al matrimonio, ai figli, alla vecchiaia, alla
morte. I personaggi miniaturizzati creano intrecci e situazioni. Sono disposti
dapprima nello spazio in una riga in diagonale che taglia la scena (questo
tappetino bianco adesivo, che mantiene “gli attori/ ben saldi al suolo) per poi
comporre in un crescendo sempre più grande le situazioni più varie. Si assiste
a vari metodi di
sucidio, alle ambientazioni più disparate: night club, manifestazioni, scene di
sesso sopra un tamburello (che viene scosso da leggeri battiti di martello via
via sempre più forti), elicotteri fatti volare grazie all’uso di un piccolo
phon, l’uccisione del presidente americano Obama.
Il regista supera limiti spaziali e temporali,
senza problemi a entrare e uscire dalle tematiche più diverse, utilizzando solo
dei piccoli accorgimenti.
Osservare da vicino questo piccolo mondo che
prende vita, ci si incanta. Un teatro da tavolo in miniatura, dove le piccole
figure di plastica mettono in scena la nostra, talvolta assurda, natura umana.
Con questo “esperimento” Espinosa abbatte
ogni tipo di limite sia economico che naturale; sempre costretto a creare
spettacoli piccoli, con uno al massimo due attori in scena (il cosiddetto
“teatro di ricerca”), il regista stravolge e crea un grande spettacolo, il più
enorme: quello della vita.
Un teatro del mondo, cosi è anche stato
definito, in cui sono raccontate tante microstorie che compongono l’esistenza
di tutti i giorni, da questi microesseri che alla fine ricalcano un po’ tutti
noi, perché senza un volto preciso ognuno può riconoscersi in quello che più
gli piace, quello che è più affine a lui, o in una delle tante situazioni
inscenate.
Mi gran
obra
è per un teatro in miniatura, è per un teatro ironico e sociale, è l’esempio
calzante che anche con zero budget (o quasi) tutto è possibile quando si hanno
delle idee vincenti.
Cristina Zanotto
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