Roma, Teatro Eliseo di Roma
fino al 17 novembre
“La gente fa moda della propria bruttezza”. Un uomo, un
intellettuale, chiuso in un appartamento ma soprattutto in sé stesso, rifiuta
il resto del mondo considerandolo ormai perduto, un mondo senza memoria e senza
parola. La potenza della poesia, della fantasia costruttrice, della parola come
un “ritrasmettersi”, medicina all’intollerabilità della vita che va avanti con
“troppi buchi intorno”. Suo unico riferimento, fisicamente presente, “il
ragazzo”, icona del muro di incomunicabilità generazionale, che a sua volta
cerca e non trova, la sua personale via. Non si capiscono, non si ascoltano,
sono diversi eppure entrambi, in qualche modo, ai margini della società
divoratrice. Un testo bellissimo, difficile, non sempre di immediata
comprensione, quello de “Prima del silenzio”, scritto da Giuseppe Patroni
Griffi nel 1979 appositamente per lo sfortunato Romolo Valli, scomparso in un
incidente stradale proprio in una notte dopo una replica di questa pièce nello
stesso teatro, l’Eliseo, dove in questi giorni un intensissimo Leo Gullotta è
il protagonista dello stesso ruolo.
Un’opera di grande poesia, in cui l’uomo e il ragazzo (Eugenio Franceschini), in un rapporto di odio amore, di protezione e disapprovazione reciproca, affrontano i propri tormenti esistenziali dissertando sulla valenza della poesia (meravigliosi i voli pindarici sul mare e i cieli). L’intellettuale che è giunto a rifiutare la famiglia, i luoghi comuni, una massificazione del giudizio (“il giudizio privato è finito” urla la moglie), una società annientatrice delle menti e dei valori, tenta disperatamente di trasmettere, “portatore benefico di parole”, una luce al giovane che ospita in casa. Ma non è possibile, è una battaglia infruttuosa tra chi rifiuta la parola come mezzo di sopravvivenza, tra chi rifiuta l’approfondimento, non senza una sua ragione, e chi della parola, della poesia, fa ormai l’unica ragione di vita, anzi di salvezza. I tormenti non risparmiano entrambi, quelli dell’uomo rappresentati dalle figure della moglie, del figlio e del maggiordomo, proiezioni della sua mente, ectoplasmi da incubo: una moglie/famiglia che ricatta e divora, sensi di colpa (il figlio), la casta (il maggiordomo) chiusa e autoreferenziale nel delirio della teoria della crudeltà necessaria. Nel turbine delle inquietudini sembra inevitabile la ribellione del ragazzo e l’abbandono. La superficialità fugge davanti alla parola, da sempre, non sopporta qualcosa che vada oltre l’incontro casuale, si rifugia nel “e poi finisce”. “Due persone che si incontrano credono all’eternità del loro incontro e operano in quel senso, proprio perché sospettano che non è vero” ribatte l’adulto. Il regista Fabio Grossi ha scelto una scenografia multidimensionale che lascia qualche perplessità nel pubblico, in particolar modo per le proiezioni dei tre incubi del protagonista, mentre estremamente suggestiva e significativa è la “cascata” di parole in mille parti che l’uomo – Gullotta tenta di trattenere, nel finale. Complessivamente, una grande opera teatrale sulla morte della parola e sulla necessità di non fare spallucce alla decadenza. Per non far sì, che in un domani prossimo, si debba ripetere che …”con un’alzata di spalle abbiamo bruciato i ghetti… con un’alzata di spalle abbiamo bruciato i giovani cosparsi di benzina..” E pensare che Patroni Griffi scrisse questo testo 34 anni fa!
Un’opera di grande poesia, in cui l’uomo e il ragazzo (Eugenio Franceschini), in un rapporto di odio amore, di protezione e disapprovazione reciproca, affrontano i propri tormenti esistenziali dissertando sulla valenza della poesia (meravigliosi i voli pindarici sul mare e i cieli). L’intellettuale che è giunto a rifiutare la famiglia, i luoghi comuni, una massificazione del giudizio (“il giudizio privato è finito” urla la moglie), una società annientatrice delle menti e dei valori, tenta disperatamente di trasmettere, “portatore benefico di parole”, una luce al giovane che ospita in casa. Ma non è possibile, è una battaglia infruttuosa tra chi rifiuta la parola come mezzo di sopravvivenza, tra chi rifiuta l’approfondimento, non senza una sua ragione, e chi della parola, della poesia, fa ormai l’unica ragione di vita, anzi di salvezza. I tormenti non risparmiano entrambi, quelli dell’uomo rappresentati dalle figure della moglie, del figlio e del maggiordomo, proiezioni della sua mente, ectoplasmi da incubo: una moglie/famiglia che ricatta e divora, sensi di colpa (il figlio), la casta (il maggiordomo) chiusa e autoreferenziale nel delirio della teoria della crudeltà necessaria. Nel turbine delle inquietudini sembra inevitabile la ribellione del ragazzo e l’abbandono. La superficialità fugge davanti alla parola, da sempre, non sopporta qualcosa che vada oltre l’incontro casuale, si rifugia nel “e poi finisce”. “Due persone che si incontrano credono all’eternità del loro incontro e operano in quel senso, proprio perché sospettano che non è vero” ribatte l’adulto. Il regista Fabio Grossi ha scelto una scenografia multidimensionale che lascia qualche perplessità nel pubblico, in particolar modo per le proiezioni dei tre incubi del protagonista, mentre estremamente suggestiva e significativa è la “cascata” di parole in mille parti che l’uomo – Gullotta tenta di trattenere, nel finale. Complessivamente, una grande opera teatrale sulla morte della parola e sulla necessità di non fare spallucce alla decadenza. Per non far sì, che in un domani prossimo, si debba ripetere che …”con un’alzata di spalle abbiamo bruciato i ghetti… con un’alzata di spalle abbiamo bruciato i giovani cosparsi di benzina..” E pensare che Patroni Griffi scrisse questo testo 34 anni fa!
Paolo Leone
Autore: Giuseppe Patroni
Griffi
Regia: Fabio Grossi
Interpreti: Leo Gullotta e
Eugenio Franceschini
Apparizioni di: Paola
Gassman, Sergio Mascherpa e Andrea Giuliano
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