“Snowpiercer”. L'arca metallica: un microcosmo della
società umana. Di Katya Marletta
L'opera di
fantascienza post apocalittica "Snowpiercer" del regista sudcoreano
Joon Ho Bong, suo debutto cinematografico in lingua inglese, conquista la
critica, a fine proiezione stampa i giornalisti hanno applaudito, e non è una
cosa che succede spesso, segno inconfutabile che questa pellicola ha
intercettato i gusti più disparati.
In una nuova era
glaciale il cambiamento climatico ha congelato l'intero pianeta per 17 anni,
Snowpiercer è l'unico posto per i sopravvissuti.
Un treno in perenne
movimento che trasporta in giro per il mondo i superstiti nell'attesa che
arrivi il disgelo; ma non tutti vivono alle stesse condizioni.
La luccicante
"arca metallica" infatti è divisa in vani molto diversi tra loro; la
sua coda è il rifugio di poveri disgraziati, costretti a sfamarsi solo di
gelatina d'insetti, mentre la parte anteriore, la locomotiva, è la dimora dei
prescelti che trascorrono le ore oziando in un ambiente lussuoso con alcool,
droghe o concedendosi saune e balli sfrenati. Ma come detta la legge della sopravvivenza,
i disperati abitanti della sezione di coda, non tardano ad organizzare una
rivolta stanchi di subire le angherie dei "padroni". Il giovane
leader Curtis li condurrà alla conquista della locomotiva che è il regno di
Wilford, l'autorità suprema del treno.
La forza di questo
film è nell'analisi del microcosmo della società umana; la visioni di Joon Ho
Bing penetra tanti strati emozionali puntando sulle differenze delle opposte
condizioni tra uomini: le sfumatura delle fragilità, la disperazione e la lotta
per la sopravvivenza, il divario tra ricchi e poveri, la difficoltà di
condividere e convivere, la pace e la libertà purtroppo si conquistano con il
sangue e la rivoluzione.
Il cast stellare
formato da Chris Evans John Hurt Ed Harris Song Kang-ho Tilda Swinton è da
plauso.
Katya
Marletta
“Manto
acuifero”. La sofferenza di una bambina senza padre. Di Gabriele Marcello
Ha impressionato, e
non poco, la platea del Festival del Cinema di Roma l’ultimo film del regista
australiano Michael Rowe, ma naturalizzato messicano, che dirige il secondo
capitolo di una simbolica ed ideale trilogia sulla solitudine, iniziata
con Ano Bisesto.
Manto Acuifero
racconta la storia di Carolina, una bambina che vive con la madre e il compagno
di lei, e che soffre della mancanza della figura paterna.
Senza scendere troppo
nei particolari si può tranquillamente ascrivere la pellicola di Rowe al
classico ramo dei film d’autore “a tutti
i costi”, senza alcun tipo di restrizione o sconto. Privo di una colonna sonora,
con una insistenza maniacale ai rumori di fondo ed esterni, e privo inoltre di
movimenti di macchina molto più fluidi, Manto Acuifero si concentra in maniera
estenuante sulla piccola protagonista, seguendola in maniera claustrofobica nel
suo percorso di abnegazione e dolore. Indubbiamente disturbante e anche
eccessivo, la pellicola si lascia seguire con difficoltà ma non abbandona mai la sua idea di cinema
puro e duro.
Gabriele
Marcello
“I'm
not him”. Un’amore estenuante (anche per lo spettatore). Di Gabriele Marcello
Mettere a dura prova
la pazienza dello spettatore ben intenzionato e voglioso di un cinema diverso è
una impresa estremamente ardua e spesso si rischia di giocare così con il
fuoco. Di un vero è proprio incendio allora possiamo parlare se analizziamo l’opera
del regista e romanziere turco Tayfun Pirselimoglu, che nel suo film I’m not
Him, decide di raccontare il problema dell’identità.
La trama è
estremamente semplice: Niaht è un timido impiegato che lavora nella mensa di un ospedale e si
innamora di Ayşe, una donna oscura che fa la lavapiatti. La loro storia, da
principio lenta, inizia a divenire sempre più morbosa.
Potrebbe apparire,
letta in questa maniera, una storia interessante, non originalissima, ma
comunque ricca di spunti. Il regista invece opta per una decostruzione filmica,
imponendo silenzi assurdi, giochi di sguardi, ellissi temporali e momenti
morti, tesi a stuzzicare e a sfiancare lo spettatore, salvo poi regalare una
colonna sonora scudisciata finale. C’è poco da fare di fronte a opere del
genere: o le si ama o le si odia. Noi, forse, l’abbiamo odiata.
Gabriele
Marcello
“A
vida invisivel”. Tra realtà e immaginario. Di Gabriele Marcello
Essere l’allievo di
un grande maestro non è sempre sinonimo di garanzia di qualità e successo
(vedete Zeffirelli adepto di Visconti), ma spesso nasconde i germi di una
presunzione esasperata ed esasperante. È il caso di A vida invisivel del
portoghese Vitor Goncalve, allievo del grande maestro Antonio Reis, che
racconta la storia dell’impiegato Hugo che, deluso dal mondo che lo circonda,
preferisce rintanarsi in una realtà onirica e parallela, abitata quasi
esclusivamente da fantasmi e regolata da un silenzio assoluto, simbolo
dell’eterna lotta tra amore e morte.
Pur giocando con
elementi meta cinematografici (i filmini in super il film non riesce (o non
vuole) assumere una forma ed una dimensione propria, abbandonandosi in maniera
costante verso una frammentarietà che spesso scade nella noia più totale. La
pellicola rimane sospesa in un limbo che non fa sconti a nessuno e che alla
fine regala, oltre che ad un senso di disagio, anche l’impressione di aver
perso tempo prezioso per inseguire le strampalate visioni del protagonista.
Gabriele
Marcello
Sintetiche, chiare, caustiche. Grazie.
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