Napoli, Piccolo Bellini. Dal
19 al 22 dicembre 2013
Un tavolino tondo cui
sopra sono poggiati una bottiglia d’acqua, una birra, un bicchiere in vetro,
una sedia e un microfono. Niente più.
C’è Pippo Delbono dinanzi al pubblico: si rapporta agli spettatori senza
creare alcuna linea di demarcazione; anzi, in più momenti vi è interazione. Si
presenta nella maniera più semplice e genuina: si mostra persona e non attore,
in tutti i sensi. Inizia un lungo monologo, un flusso di coscienza pregno di
valore. È la sua vita quella raccontata, senza fronzoli e senza giri di parole.
Non c’è bisogno di aggiungere nulla di diverso da quel che nella realtà risulta
essere; ma è necessario trovare il coraggio di farsi leggere, come un libro, da
chi non può comprendere o è abituato a sputare sentenze. Non c’è nessuna morale e nessun patetismo.
<Abbiamo bisogno di preti cattivi, di genitori cattivi per ribellarci ed
essere liberi.>.
È la vita di un uomo
spiattellata in faccia a chiunque senza timore.
Una triste realtà e una cruda verità: una storia d’amore nascosta a
tutti per paura, un sentimento destinato a sopravvivere persino alla morte. Ce
lo racconta in prima persona, ma anche attraverso l’intervento di un narratore
onnisciente, da egli stesso interpretato. Vittorio, il suo amico, decede dopo
due mesi di coma. La causa è stata un incidente con la moto. È questo il motivo
che avvicina Delbono al teatro e che lo spinge ad espatriare in Danimarca,
consapevole di non poter confessare a nessuno quel rapporto e dunque dover
incassare i colpi lasciandosi corrodere silenziosamente dal dolore. <È più
difficile superare un dolore se non ne puoi parlare.>. Ne rielabora il
lutto, ne simula gli ultimi gesti, come se attraverso quell’imitazione potesse
riviverlo per un istante ancora. Poi, nel 1989 la scoperta dell’HIV: una malattia
che unisce due anime e che costringe l’uomo che sopravvive a non dimenticare
chi è volato via. Un virus lasciato da quell’amico che non appartiene al
passato. Un legame che va al di là del tempo e dello spazio: un amore infinito
nella sua finitezza. <Dimmi che mi
ami, dimmi che mi amerai per sempre.>. Questa frase è ripetuta
ossessivamente: dolcemente, ansiosamente, rabbiosamente, disperatamente.
Bisbiglia, parla, urla, strepita con l’unica speranza di esser ascoltato da chi
è dentro di sé. Si parla dell’avvicinamento al buddhismo, iniziato ventiquattro
anni fa. La necessità diviene scovare qualcosa di positivo anche nelle cose
peggiori. Bisogna essere liberi. <Noi non siamo capaci di essere liberi.
(…)devi lottare con gioia>. Ed è proprio sul concetto di libertà che
l’attore cita “Libertà”, poesia di Paul Eluard e “La Rabbia”, film di Pier
Paolo Pasolini e Giovanni Guareschi. "(...) Se non si grida evviva la
libertà umilmente. Non si grida evviva la libertà. Se non si grida evviva la
libertà ridendo.
Non si grida evviva
la libertà. Se non si grida evviva la libertà con amore. Non si grida evviva la
libertà.
Voi, figli dei figli
gridate con disprezzo, con rabbia, con odio evviva la libertà. Perciò non
gridate evviva la libertà.(...)". Delbono ironizza,
scherza, sorride. E poi ancora legge e
interpreta il Discorso della Montagna (Vangelo secondo Matteo): “Beati i poveri
di spirito; beati quelli che piangono, perché saranno consolati”, “Psicosi delle 4 e 48” di Sarah Kane e
Castaneda. Un continuo susseguirsi di pensieri bui, neri, di morte;
intervallati a readings e spezzoni della propria esistenza. Dolori che si
fondono a rabbia e delusioni; ma anche una grande voglia di vivere e di
aggrapparsi alla gioia. <Non lasciate che questo veleno mi entri nelle vene,
mi entri nel cervello, mi entri nel cuore.>. Non c’è nulla da dire in
aggiunta. <Sieropositivo, omosessuale e buddhista. Solo tre parole.
Grazie.>. Esattamente questa è la chiosa di un discorso pregno di dignità,
intensità, spessore, corposità e vita; la stessa per la quale Delbono, ancora
oggi, combatte.
Francesca
Saveria Cimmino
Compagnia Pippo Delbono
Racconti di giugno
di e con Pippo Delbono
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