Teatro Mecenate. Giovedì 16 Gennaio 2014
Recensire un dramma di una simile portata, devo
ammettere, mi pone in uno stato d'animo molto critico, non nei confronti dello
spettacolo, s'intende, ma verso ciò che lo spettacolo stesso ha provocato in
me.
Nella serata del sedici, quando mi sono diretto al Teatro
Mecenate, sapevo poco o nulla di quest'opera di Ibsen, accenni vaghi, rimasugli
delle lezioni liceali di italiano dell'anno passato (spero premierete la mia
sincerità, senza dar troppo peso a questa lacuna).
Prima ancora che incominciasse lo spettacolo, la mia
attenzione è stata catturata dalla scena, dalla sua composizione cupa, tetra
dove il colore nero l'ha fatta da padrone. Un'atmosfera che pesa e che trascina
lo sguardo dello spettatore in un vuoto apparente, dove la "luce"
penetra con difficoltà; un'atmosfera che annuncia una fine imminente.
Hedda Gabler è un personaggio complicato, che racchiude
in sé miriadi di sfumature e di sentimenti. Sicuramente negli anni - e parliamo
di più d'un secolo dalla prima messa in scena, avvenuta nel gennaio del 1891-
sono stati colti, in tempi e luoghi sempre differenti, i diversi colori che
Ibsen ha saputo donare a questo personaggio, che ormai rappresenta una delle
icone drammaturgiche femminili di maggior successo nel mondo del teatro.
La regia di Antonio Calenda, la prima di uno spettacolo
dell'autore norvegese, inquadra la protagonista in un'ottica soprattutto
filosofica, legando, come afferma lui stesso in un'intervista rilasciata al
giornale "La Nazione", “il mondo interiore di Hedda alle correnti di
pensiero di Freud e Nietzsche”. I riferimenti a quest'ultimi, infatti, non
mancano: alcuni dialoghi con il giudice Brack hanno tutta la parvenza di sedute
psicoanalitiche, dove emergono, grazie al confronto tra i due, tutte le
contraddizioni e la dicotomia di sentimenti che vivono in Hedda.
Il giudice Brack interpretato da Luciano Roman diventa
un'affascinante quanto mai cinico uomo d'affari, un uomo per il quale il fine
giustifica sempre i mezzi; emblema di questa società spietata, sarà proprio
lui, alla fine, a mettere alle corde Hedda.
Una Hedda Gabler che fin dall'inizio ci appare come
insonne, insoddisfatta della sua vita, una vita che in effetti non ha voluto,
ma nella quale ha voluto trovarsi per comodità. Un matrimonio di convenienza
che non porterà i frutti desiderati, ma che acuirà invece quella sua "noia
di vivere", quello spleen e quel malessere esistenziale che porta sempre
con sé.
Profondamente annichilita e annoiata, crudele e
bellissima, preferisce giocare con le persone, averle sotto il suo comando,
piuttosto che vivere di loro, con loro.
Tuttavia, il ritorno di Ejlert Løvborg minerà
irremediabilmente quell’idilliaco paradiso borghese che Hedda pensava di essere
riuscita a costruirsi intorno.
Løvborg, scrittore talentuoso, ma sregolato, finalmente
"redento", metterà in crisi la sicurezza della famgilia Tesman e
tutte le loro certezze. Proprio attraverso Løvborg, unico personaggio puro di
questo dramma, riusciamo a scorgere in piena platealità la piccolezza, la
mediocrità di Jørgen Tesman e l'arrivismo, l'egoismo di Hedda Gabler.
Hedda, che resterà sempre combattuta dal suo desiderio di
tragressione, affascinata anche per questo motivo dallo sregolato scrittore, e,
dall'altra parte, dalla paura di rimanere sotto uno scandalo. Innamorata e
gelosa di Løvborg propria per la sua più grande qualità: avere il coraggio di
vivere. Quel coraggio che le manca per vivere come veramente desidera e non,
per esempio, subordinata economicamente ad un marito che non ha mai amato.
La soluzione è una ed è, allo stesso tempo, quasi
elogiata da Hedda, quando propone lo stesso a Løvborg, come unica possibilità
per dimostrare veramente di essere liberi e di avere il giusto coraggio per
farlo, per riuscire a scappare da quella realtà che non ha più nulla di
idilliaco. Per fuggire dai detestati vincoli familiari, per fuggire dalle
avances del giudice, per fuggire dalla sua stessa solitudine, per fuggire dalla
noia.
Un colpo alla nuca: il coraggio di vivere diventa così il
coraggio di morire.
Grazie a Manuela Mandracchia, bellissima e perfetta nelle
vesti di Hedda, devo soprattutto questa riflessione, ma, ovviamente, lei e
tutta la compagnia hanno saputo rendere questo dramma con intelligenza, ironia
e in primis con immensa passione. Grazie.
Massimo Quarta
di Henrik Ibsen
regia Antonio Calenda
con Manuela Mandracchia, Luciano Roman e (in o.app.) Jacopo Venturiero,
Simonetta Cartia, Federica Rosellini, Massimo Nicolini, Laura Piazza
musiche Germano Mazzocchetti
scene Pier Paolo Bisleri
luci Nino Napoletano
costumi Carla Teti
Produzione Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia/ Compagnia Enfi Teatro
Grande regista Calenda!
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