E’ un bel colpo aver
avuto la possibilità di approfondire la conoscenza di un bravissimo attore come
Michele. La sua simpatia, la sua educazione, disponibilità e umiltà ci hanno
accompagnato in questa carrellata sulla sua carriera, dagli inizi ai trionfi di
Rugantino, all’inconfondibile stile che contraddistingue i suoi spettacoli. Le
amicizie di una vita, la solidarietà tramite il suo teatro. Una persona vera,
prima che un protagonista dei palcoscenici.
Michele, innanzi tutto grazie per aver accolto il Corriere
nel tuo camerino, prima dello spettacolo. Documentandomi, ho scoperto che sei
laureato in giurisprudenza e che hai esercitato la professione di avvocato.
Come e quando nasce l’attore che conosciamo oggi?
Ma io ho sempre fatto
l’attore, sin da quando ero piccolo..dai 15/16 anni, venendo fuori dalla
classica parrocchietta nel senso che in parrocchia c’era la possibilità di
esercitarsi a recitare. Era una passione, non pensavo che potesse diventare il
mestiere della mia vita. Provenendo da una famiglia di laureati, era importante
che io studiassi; facevo l’attore e studiavo, mi laureavo in legge e facevo
l’attore, poi sono stato assunto da una compagnia di assicurazioni e facevo
l’attore, facevo pratica per diventare avvocato e facevo l’attore, poi alla fine,
diventato avvocato, campavo in modo diverso e vivevo in modo distaccato questa
professione che purtroppo a volte ti costringe a fare anche delle cose brutte.
Ho avuto la possibilità di poter scegliere, anche la libertà di poter aprire un
teatro con cui non guadagnavo ma potevo fare delle scelte e quando iniziai a
condurre “Solletico” in tv, decisi di lasciare tutto…avevo fatto anche una
bella carriera… ma non mi pento nel modo più assoluto!
Attualmente sei in scena con l’emozionante “Garbatella
Futbol Cleb”, che prende il calcio a pretesto per parlare di vita. Le tue
storie conservano sempre una radice poetica, intrisa di tenerezza. Immagino che
sia dentro di te questo, è il tuo modo di guardare il mondo?
E’ così Paolo, certo!
Noi cerchiamo di esprimere una parte di noi stessi. Poi io ho la fortuna di
essere spesso coautore, con Adriano Bennicelli che conosco da una vita, e ci
piace l’idea di far ridere, sorridere, riflettere e anche un po’ commuovere,
che sono poi tutte quelle sensazioni importanti nella vita di un uomo. Quindi
l’idea di costruire uno spettacolo che non sia solo ridere per ridere, ma che
regali spunti di riflessione è quello che ci piace.
La tua collaborazione con Bennicelli credo che ormai sia
storica. Vi capite così tanto?
Siamo veramente
cresciuti insieme, ci conosciamo da quando avevamo 10 anni! Lui è architetto,
fà tutt’altro nella vita (ride)…nei primi spettacoli eravamo insieme,
recitavamo insieme, ma lui soffriva molto a stare sul palcoscenico. Trovò
questa strada della scrittura e per me è stato molto arricchente. Tutta la
parte, diciamo quella più attenta ai particolari, alle sfumature, è sua, mentre
la parte brillante ma anche pratica, che rende più fruibile a chi ascolta ciò
che lui scrive, quella appartiene a me. Ci completiamo, poi abbiamo trovato un
modo di scrivere molto semplice: lui scrive da una parte, io dall’altra, poi ci
inviamo i nostri scritti (ride ancora)…è così, funziona bene.
Facciamo un tuffo nel passato. Io purtroppo non ho avuto
la fortuna di vederti, ma tanti addetti ai lavori mi dicono che il tuo
Rugantino fu uno dei più belli e credibili. Raccontaci come si realizzò questo
sogno.
Io volevo fare
Rugantino a tutti i costi! All’epoca avevo saputo che Valerio Mastandrea non
l’avrebbe più fatto. Io non ero uno sconosciuto perché allora conducevo la tv
dei ragazzi su Raiuno, ma non avevo ancora una forza teatrale tale da potermi
imporre per arrivare al Sistina! Feci di tutto per conoscere Pietro Garinei.
Allestii uno spettacolo con Sergio Zecca, che aveva fatto parte del cast di
Rugantino, lui proveniva dalla scuola di Gigi Proietti ed è colui che più di
ogni altro collabora con me al Teatro Sette, essendo anche il direttore del
laboratorio. Gli dissi: faccio tutto io, penso a tutto io, tu portami Garinei a
vedermi! Portai una mia videocassetta a Garinei, Sergio lo invitò, lui venne al
Teatro Sette…capisci? Garinei che viene al Teatro Sette! Vide lo spettacolo, il
giorno dopo mi chiamò, volle conoscermi, mi fece fare non so quanti provini,
poi pian piano cominciarono a venire al mio spettacolo Gino Landi, il direttore
del Sistina, Sabrina Ferilli, e dopo il “si” della Ferilli, ma anche di Landi,
di Trovajoli….chiunque passasse doveva dire la sua, la cosa andò in porto! Era
il 2000, io feci la stagione 200/2001 al Sistina e nel 2005 ripresi con la
tournè in tutta Italia, l’unico Rugantino che ha girato tutta Italia!
E’ vera questa storia, che interpretare Rugantino ti
“marchia” a vita, in qualche modo? E’ un limite o è servito ad aumentare la tua
popolarità?
Ma guarda….io penso
che i treni della mia carriera forse li ho persi tutti, dal punto di vista
della carriera in sé per sé e li ho presi tutti perché ho avuto la fortuna di
essere arrivato dove sono ora, sempre da solo. Ho visto Garinei venire nel mio
teatro, ti rendi conto? Eravamo sconosciuti, avevamo aperto da due anni! Sono
tutte cose belle, poi forse io non ho mai saputo sfruttare bene le occasioni,
ci sono tante situazioni particolari..sbagli un’agenzia, non coltivi quelle
conoscenze che potrebbero essere necessarie per la carriera…però dal punto di
vista umano ho ottenuto degli enormi risultati. A me Rugantino non mi ha
marchiato, sicuramente mi ha dato tanto, perché mi ha fatto conoscere al
grandissimo pubblico.
A proposito di popolarità, ti dà fastidio essere
riconosciuto, da chi non frequenta i teatri, come quello dello spot della pasta
in tv? Come ti spieghi il successo di questa pubblicità?
Assolutamente no! Il
successo me lo spiego perché in quello spot esce fuori la naturalezza di un
attore, di un’artista. Uno spot è molto semplice, però lo puoi far passare
inosservato oppure portando a casa un risultato inaspettato. Questo spot mi sta
cambiando la vita! Perciò dato che è uno spot di qualità, con la regia di Luca
Miniero, non è proprio una cosetta fatta così, a buttar via. No, non mi dà
fastidio per niente!
Hai parlato del Teatro Sette. Quale esigenza ti ha fatto
decidere questa avventura?
Tanti anni fà noi
avevamo un’associazione di volontariato per la prevenzione della delinquenza
minorile e scoprimmo che tramite il mezzo teatrale si poteva essere utili a
qualcuno. Portavamo avanti questa iniziativa con tanti ragazzi, offrendogli
un’alternativa alla strada, utilizzando il salone parrocchiale che io
conoscevo, nel 91. Visto che in quegli anni facevo incassare tanti soldi ai
teatri con i miei spettacoli, andai dal parroco e gli proposi di ristrutturare
quel luogo, facendo gli spettacoli e utilizzando gli incassi per costruire il
teatro. Ci prese “la botta da matti”, spendemmo otto volte più di quello che
avevamo in cassa, ma da quel momento non ci siamo più fermati. Il progetto
Teatro Sette rimane legato alla solidarietà, progetto che portiamo avanti con
forza, collaborando con tante altre onlus. Ne abbiamo una che ha adottato una
missione in Mozambico, abbiamo costruito due scuole, un dormitorio e tante
altre cose stiamo facendo, e offriamo i nostri spazi a tante altre realtà. Ora
il mio teatro è diventato una bella realtà e dà lavoro a tante persone. Quando
si fanno le cose con serenità, funzionano sempre.
Attore, autore, regista. In quali di questi ruoli ti
senti più a tuo agio. Fare la regia ti ha permesso di conoscere meglio gli
attori?
Sì, moltissimo! Mi
permette anche di mettere a disposizione la mia esperienza. Questo è un
mestiere fatto di scambi. Un tempo scrivevo, recitavo, mi dirigevo. Adesso
cerco sempre di farmi dirigere da altri, di scrivere insieme a qualcun altro. A
me piace più recitare, questo è un dato di fatto.
Ho letto, una volta, delle tue riflessioni interessanti
sulla differenza tra gli attori di teatro e quelli della tv o del
cinema…parlavi di lavoro “a togliere”. Puoi spiegare anche ai lettori del
Corriere?
(sorride) E’ come
quando devi passare per una porta stretta con un grosso bagaglio, ti togli tutto
quello che ostruisce il passaggio, diventi più “magro” e passi attraverso
quella porta. Il problema è quando poi tu devi riempire uno spazio grosso. Se
tu sei secco secco, perché abituato a passare sempre per quella porta
stretta…quando lo riempi lo spazio? Il teatro è questo. Il teatro, il suo
palcoscenico, sono enormi e tu lo devi occupare totalmente, con tutto il corpo,
con tutte le espressioni, la mimica facciale. In tv sei davanti a un obiettivo
e basta.
Nei tuoi spettacoli ci si diverte, si ride, ma spesso ci
si commuove. La sfatiamo questa diceria, a mio parere nefasta, che il pubblico
vuole solo ridere?
Purtroppo il pubblico
con cui il teatro sopravvive è un pubblico di abbonati. Gli abbonati, spesso, vanno
a teatro perché vogliono dimenticare tutte le difficoltà quotidiane. Il
problema grosso è che, purtroppo, poi per rincorrere un maggior numero di
abbonati, si cede poi qualcosa alla scelta da un punto di vista artistico. Io
penso che nelle varie forme di espressione, il cartellone di un teatro debba
dare spazio a vari tipi di drammaturgie. Io non penso che per essere serio, un
cartellone debba per forza avere il teatro drammatico, ma insomma anche in
quello brillante ci sono tante differenze qualitative. Riuscire a far
riflettere mediante una risata, penso che sia il massimo! Poi sai Paolo, io sono anche direttore di un teatro e
ti dico che ogni tanto un compromesso lo accetti…sai, magari so che quel
personaggio “mi incassa”, mi porta gente che magari non andrebbe mai al Teatro
Sette. Io vivo con gli incassi, però una via di mezzo c’è. Ad esempio qui al
Golden dove sto facendo “Garbatella”, ho proposto il mio spettacolo, che forse
è fuori target. Magari quelle persone che sono abituate a Michele La Ginestra
che fà ridere potranno rimanere un po’ sorprese, ma penso che a questo
spettacolo non manchi nulla e sta andando bene.
In “Radice di due”, che ricordo con grande emozione, ma
anche in “Banda disarmata” come in quest’ultimo spettacolo con cui sei in scena,
ci offri sempre personaggi di grande dolcezza. Perché ribadisci sempre che
“mediano di spinta” e quindi “Garbatella” che ne è una felice rivisitazione, ti
è particolarmente caro?
I primi due che hai
citato furono scritti da Adriano Bennicelli, anche se poi lui mi permette di
stravolgere, tagliare, arricchirli, e in tutti e due c’è molto di me. Mediano di spinta è uno spettacolo che
avevo in testa, volevo scrivere, avrei dovuto scriverlo con Giuseppe Manfridi
(drammaturgo ndr), poi lui ebbe dei problemi. Lo sento più mio come spettacolo,
forse per questo, ma adoro sia Radice di
due (che recitò insieme ad Edy Angelillo ndr) che Banda disarmata, mi piacerebbe farli sempre! Ecco, questo è lo
stile nostro! Brillante, ma con sostanza.
Arnoldo Foà disse: “il teatro è un moribondo che non
muore mai, perché abbiamo bisogno del teatro per conoscerci, per riconoscerci”
e che “non puoi essere attore se non conosci te stesso e il mondo, l’umanità.”
A che punto è Michele La Ginestra in questo meraviglioso cammino?
Conoscere l’umanità è
una bella sfida eh!! Il mestiere che facciamo ci aiuta in questo, ma bisogna
vedere poi anche quanta voglia si ha di vedere nell’altro un valore. Dato che
questa voglia è ispiratrice della mia vita, vedere l’essere umano come un valore
a prescindere da tutto il resto, e che ho una disponibilità all’ascolto, credo
di avere un vantaggio per arrivare a una conoscenza migliore. Se fai questo
mestiere, lasciando stare le presunzioni di noi attori, hai una sensibilità
diversa.
Paolo Leone
Bravissimo attore e bella intervista. Bravi!
RispondiEliminaGrazie. Paolo
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