C’è
anche un’ altra America,
cinematograficamente parlando,
che non è
quella della finanza, delle star, degli effetti speciali, delle
sparatorie, degli inseguimenti, delle metropoli, ma
quella fatta di silenzi, di distanze che sembrano infinite, di paesaggi
incontaminati, di vecchiaia, di sogni,
di umiltà.
Il
film “Nebraska” candidato a quattro premi Oscar, racconta tutto questo in modo
estremamente semplice e chiaro, grazie ad una regia misurata, essenziale, che non cerca mai di strafare o di imporsi sulla
sceneggiatura e sulla recitazione,
toccando così, poesia, verità e bellezza. La sua forza sta
nelle parole non dette, negli sguardi,
nella bravura degli attori e nella
fotografia in bianco e nero, che
in ogni inquadratura ci ricorda Ansel
Adams o Edward Hopper.
Woody
Grant, uno straordinario Bruce Dern, lo ricordiamo per esempio in “Black Sunday”, “Coming Home”, “Family Plot”, “The Great
Gatsby”, “All the Pretty Horses” e
che per questa interpretazione
merita senz’altro una statuetta, è un ex combattente della guerra di Corea, con
un passato da alcolista e ancora poco da vivere. La sua vita trascorre senza
sorprese nella città di Billings nel Montana, accanto ad una moglie
insopportabile e chiacchierona, che certamente non ha sposato per amore, e due
figli, David e Ross. Ma dentro ha un sogno: comprarsi un furgone e un compressore. Ricevere tra la posta
l’avviso di essere stato selezionato per una vincita di un milione di dollari è per lui una
ragione di vita e di speranza. Per
ritirare il premio però, occorre affrontare il viaggio fino in Nebraska, a Lincoln, lontano più di
settecento miglia da casa sua.
La
prima inquadratura è un paesaggio urbano, su cui si stagliano ciminiere
fumanti e la figura ingobbita di
Grant che cammina lentamente sul
cavalcavia di una super strada per raggiungere il Nebraska.
Una
macchina della polizia accosta e lo riporta a casa. Il vecchio però è deciso ad
andare fin là, per ritirare il premio,
costi quel che costi. Il figlio David, l’unico che capisce il motivo della
testardaggine paterna, decide di prendersi alcuni giorni off dal suo lavoro di commesso,
e di accompagnarlo con la sua macchina.
E
così dal Montana passando per il South Dakota, la piccola auto di David procede su quelle strade che si
snodano come una collana lunghissima e senza perle per praterie e piccoli
agglomerati di casette.
Soltanto
chi si è allontanato dalle grandi e famose città
americane, può capire cosa significhi
lasciarsi alle spalle grattacieli e ponti, traffico e cemento guidando
per miglia e miglia senza vedere anima viva,
facendosi risucchiare da quel
nulla che sembra non abbia fine, o che finisca direttamente con la morte.
Ma
fortissima è la sensazione che ci prende
quando finalmente capiamo cosa siano
la libertà e il fascino delle
grandi dimensioni, delle pianure a
perdita d’occhio, solo con la voglia di
perderci, senza lasciare traccia
di noi stessi.
Tra
padre e figlio, in questo andare on the
road alla ricerca di un miraggio, si
instaura un rapporto nuovo, più intimo,
più umano, anche se il vecchio Grant è scorbutico, distratto, smemorato, capriccioso.
Starà a
David tirare fuori tutta la sua
pazienza e comprensione per sopportarlo.
Prima
di arrivare a Lincoln, faranno tappa a Hawthorne, città natale di Woody,
dove andranno a fare visita al fratello
e alla sua famiglia. Le scene in questa cittadina sono straordinarie,
stradine deserte e ventose, il bar dove
si ritrovano gli abitanti, ormai tutti
vecchi, a bere birra, giocare a
bigliardo o fare karaoke, poche case
sparse di agricoltori, il cimitero spoglio e umile, le misere insegne che fanno
l’occhiolino. E’ tutta una desolazione e una solitudine che la fotografia di
Phedon Papamichael solleva da uno squallore assicurato. Un altro oscar anche
per lui?
Bruce
Dern recita con i suoi grandi azzurri tutte le sfumature silenziose di un uomo che sta per avvicinarsi alla fine
della vita, eppure quando guarda il cielo e respira con la testa fuori dal finestrino, sembra tornare
bambino, un bambino che vuole i suoi giocattoli, perché qualcuno glieli ha
promessi. Oppure quando rilegge a non finire il manifestino pubblicitario della
presunta vincita.
L’
ultimo sguardo di Woody, su cui si sofferma la camera, è rivolto
alla donna che un
tempo aveva forse amato, ed è carico di stupore e di nostalgia. E sulla testa,
a coprire quei pochi capelli bianchi che
per tutto il film hanno svolazzato come quelli di uno spaventapasseri, il
cappello da baseball che gli hanno
regalato come premio di
consolazione. Quando gli occhi della donna si inumidiscono
impercettibilmente incrociando quelli di Woody, noi spettatori capiamo tutto quello che c’è dietro, pur nel silenzio
più assoluto.
Ci
sono piccoli grandi film come questo, costato
13 milioni di dollari, dove tutto suona senza stonare, senza rimbombarci
nelle orecchie con vacuità, intellettualismi e idiozie, ma semplicemente usando
nel migliore dei modi tecnica e arte, intelligenza e passione.
Quando
usciamo dal cinema e possiamo dire di
avere compreso il significato della
storia, di avere assaporato immagini che solo una fotografia in bianco e nero
può darci, quando perfino l’ultima comparsa, scelta con cura e
meticolosità ci ha comunicato qualcosa,
quando la musica ci ha cullato con il suo
misto di country e di blues, quando un attore non smette di migliorare
offrendoci una tale interpretazione,
quando il messaggio che riceviamo ci arriva diretto al cuore, allora abbiamo la percezione che la semplicità sia la cosa più difficile
da raggiungere. Alcuni ci riescono, la maggior parte no.
Daria
D.
Nebraska
Stati Uniti 2013
Interpreti:
Bruce Dern: Woody
Grant
Will Forte:
David Grant
Bob Odenkirk:
Ross Grant
June Squibb: Kate
Grant
Stacey Keach: Ed
Pelgram
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