Sangue, un film di Pippo Delbono, vincitore a Locarno del
premio Don Chisciotte, è interpretato dallo stesso Delbono, Margherita Delbono
e Giovanni Senzani. Sono due le storie che il regista e attore intreccia in 92
minuti: da un lato, il terrorista appartenente al gruppo delle Brigate Rosse Giovanni Senzani che racconta sia di quando
nell'agosto dell’81 giustiziò Roberto Peci, sia di Anna Fenzi, la donna amata
che lo aspettò per 23 anni e, dall’altro lato, Margherita Delbono, la sua lotta
contro il cancro, il viaggio del figlio a Tirana per cercare una medicina
cubana, (ovvero, il veleno dello scorpione blu), atta a curare il brutto male
e, infine, la degenerazione. Due storie distinte e separate che però non
appartengono a linee parallele: c’è un momento in cui ci si incontra, tutti, in
uno stesso posto: quello spazio è la morte. Ci si è sempre chiesti fin dove la
macchina da presa potesse arrivare.
Maya Deren provò ad andare oltre quel confine, eppure ci rinunciò: c’era un limite che non potesse e riuscisse a superare. Ci si poteva avvicinare, si poteva tentare di filmare dall’interno un fenomeno, un evento, una danza, una tradizione, un rituale, ma si utilizzava sempre e comunque un medium che inevitabilmente ritagliasse estratti di vita senza rappresentare mai la realtà pienamente. Delbono sembra andare al di là di quella linea di demarcazione. Segue la madre nel suo calvario filmando tutto: l’accompagna e fa in modo che anche lo spettatore veda. La donna dapprima in casa, poi nel letto d’ospedale, a cui segue lo sfinimento, il dolore ed infine la morte. “Non piangere, non disperarti per me, io non ti ho lasciato, ti ho soltanto preceduto. Non ti ho abbandonato, veglio su di te.”. Questa è una piccola parte della preghiera di S. Agostino che Margherita, madre del regista, ripete di continuo. Delbono mostra il suo corpo anche quando il cuore ha smesso di battere e lei ha smesso di soffrire. È finalmente serena, è libera. Non lo è chi guarda: è sempre difficile rivivere attimi in cui la perdita di un affetto lacera; è difficile accettare che accada. Ma è questa la realtà e Delbono non si limita: non filtra alcuna verità. Si può rabbrividire, si può piangere, si può ricordare sé stessi, ma non si può negare l’evidenza e l’oggettività di quel che avviene ad ognuno. Il regista lo mostra con semplicità.
Maya Deren provò ad andare oltre quel confine, eppure ci rinunciò: c’era un limite che non potesse e riuscisse a superare. Ci si poteva avvicinare, si poteva tentare di filmare dall’interno un fenomeno, un evento, una danza, una tradizione, un rituale, ma si utilizzava sempre e comunque un medium che inevitabilmente ritagliasse estratti di vita senza rappresentare mai la realtà pienamente. Delbono sembra andare al di là di quella linea di demarcazione. Segue la madre nel suo calvario filmando tutto: l’accompagna e fa in modo che anche lo spettatore veda. La donna dapprima in casa, poi nel letto d’ospedale, a cui segue lo sfinimento, il dolore ed infine la morte. “Non piangere, non disperarti per me, io non ti ho lasciato, ti ho soltanto preceduto. Non ti ho abbandonato, veglio su di te.”. Questa è una piccola parte della preghiera di S. Agostino che Margherita, madre del regista, ripete di continuo. Delbono mostra il suo corpo anche quando il cuore ha smesso di battere e lei ha smesso di soffrire. È finalmente serena, è libera. Non lo è chi guarda: è sempre difficile rivivere attimi in cui la perdita di un affetto lacera; è difficile accettare che accada. Ma è questa la realtà e Delbono non si limita: non filtra alcuna verità. Si può rabbrividire, si può piangere, si può ricordare sé stessi, ma non si può negare l’evidenza e l’oggettività di quel che avviene ad ognuno. Il regista lo mostra con semplicità.
Evidenzia gli ultimi istanti, in
cui non c’era alcuna necessità di parlare: bastava stringere fortemente quella
mano al punto da sentire l’unicum e per affrontare insieme quel salto in un
abisso. Non c’è nulla di più complesso, forse, che filmare la fine
dell’esistenza di un genitore o di un figlio; eppure Delbono trova il coraggio
per farlo. La stessa cruda verità viene raccontata da Senzani sulla morte
dell’ostaggio dopo 54 giorni di prigionia. Si vede chiaramente la descrizione
di quella frazione di secondo, in cui Peci, impossibilitato a vedere, si illuse
che lo stessero liberando, essendo stato portato all’aria aperta, ma capii,
sentendo il rumore del proiettile inserito nell’arma, che quelli erano gli
ultimi istanti della sua vita e urlò un forte e fulminante “no!”, cui seguì il
rumore dello sparo. Senzani ammette di non aver mai più dimenticato quel grido
misto di dolore e amarezza, ma al contempo, a suo modo di vedere, il motivo per cui l’uomo compiva tali atti
infami, era l’ ideologia: il credo per cui si viveva. Sembra impassibile e la sua razionalità
disarma; eppure, contestualizzando, è normale che un uomo abituato a quegli
anni, non si sconvolgesse quanto uno spettatore qualsiasi ai giorni d’oggi. E
poi c’è Anna, sua moglie, che ha pazientato aspettando che Senzani uscisse dal
carcere per riabbracciarlo e che, però, poi, un giorno, vola via lasciandolo
solo. Anna provoca in Senzani quel senso di smarrimento che contemporaneamente
corrode Delbono, il quale a seguito del lutto visita l’Aquila: quella terra
devastata dal terremoto, in cui solo macerie, spettri e silenzi sono i
protagonisti. Il regista esclusivamente in quello spazio sente, ormai, di
essere a casa. In un non-luogo: un posto senza più un’identità e una forma; un
posto che ha perso tutto e che è stato trafitto nel cuore. Non ci può esser
metafora migliore per raccontare il vuoto che si crea nell’uomo quando la morte
gli porta via una persona amata. Delbono l’ha narrato in Racconti di giugno e
torna a parlarne in Sangue. Ha incontrato la morte sin da giovane con
l’incidente di Vittorio, da adulto con la perdita della madre; e adesso conosce
la solitudine, quella profonda. Non è un caso che fino agli ultimi venti minuti
del film il regista e Giovanni Senzani siano stati ripresi solo di spalle o di
profilo e le luci siano state cupe o le riprese notturne e che, sul finale, i
loro volti appaiano illuminati: per l’ex terrorista gli occhi sono lucidi e
rassegnati, mentre Delbono si cela sotto un paio di occhiali da sole, senza che
le lacrime smettano di scorrere sul suo viso. Dunque il dolore ha dei
lineamenti ben precisi ed è la cosa più umana, come la morte, che si possa
esporre. Senza paura il regista mette in gioco se stesso posizionando un
cellulare o una macchina fotografica compatta avanti il suo volto, per
manifestare cosa significhi esser stati mutilati dentro.
Francesca
Saveria Cimmino
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