L’ultimo
film dei fratelli Coen ci lascia con la sensazione che i registi abbiano
suonato uno strumento usando solo tre note della scala musicale, con il
risultato di una melodia incolore e monotona, senza un crescendo vero e
proprio, regolare, un po’ stancante. Ma
Davis, il protagonista della storia, non è un musicista jazz, né classico, lui
fa musica folk, agli inizi degli anni sessanta era solo agli albori, nei locali
fumosi e poco frequentati di una New York anonima e senza la bellezza cui siamo
abituati. E’ uno come tanti o come pochi. Secondo i punti di vista, un genio o
un fallito come spesso s’incontrano nell’ambiente artistico, che cerca di
“vendere” la propria arte come unica e senza precedenti.
Nel locale chiamato Gaslight Café, Llewyn Davis, suona molto bene la sua chitarra
e canta “Hang me…hang me”, una ballata malinconica sulla vita, sotto un cono di
luce polverosa, seduto su una sedia al centro di un piccolo palcoscenico
polveroso, davanti ad un pubblico esiguo e attento e a un manager stupido che
della polvere non frega un bel niente.
Come tutti gli artisti è alla ricerca di riconoscimenti, di successo, di soldi.
Secondo gli sceneggiatori, Davis dovrebbe avere più talento di altri, sennò perché
sceglierlo come protagonista, l’eroe sfortunato e incompreso della storia? La colpa è degli agenti, degli impresari, del
gusto della gente se la sua carriera non decolla, se non ha successo o è in
parte anche sua per quel carattere chiuso che si ritrova, un pizzico di
autocompiacimento per la sfortuna che lo perseguita, le relazioni complicate
con le donne e i datori di lavoro, e un repertorio non male ma nulla più?
I fratelli Coen non spiegano tutto questo, si
nascondono dietro il solito surrealista e scombinato modo di raccontare le
storie. Ormai ci hanno abituati così, su questo stile hanno costruito la loro
fortuna.
Nemmeno
con un bel gatto rosso, il protagonista riesce
a stabilire un contatto duraturo, perché se lo fa continuamente scappare, da
una casa all’altra, tutte di amici, perché lui di case non ne possiede nemmeno
l’ombra. Vive una vita senza radici,
senza territorio stabile e forse è per questo che Davis cerca di ritrovarle in
quella musica delle tradizioni, lenta e malinconica, poetica e senza sprazzi di
allegria.
Molte
scene, come quel viaggio per Chicago con i due strampalati personaggi, sempre
grande John Goodman ma bravo anche lo chauffeur Garrett Hedlund o quando il dottore gli annuncia che
è padre da circa due anni, la visita all’agente, o il pranzo a casa del
professore ebreo con amici a dir poco deficienti, sono forzate e senza capo né coda, delle
macchiette per confonderci un po’ e fare
colore. A proposito di colore la
fotografia è molto buona, come pure tutto il resto, tecnicamente parlando.
Nulla da dire, i due fratelli rimangono unici nel loro genere, hanno fatto piccoli
capolavori come “Fargo” e “Il Grande
Lebowski”, rappresentano il cinema
indipendente che tanto amiamo, a ogni film ci propongono qualcosa di nuovo e di
diverso. In “A proposito di Davis” non raggiungono, però, le vette, rimangono sottotono, troppo ermetici,
raccontano la storia del musicista, interpretato da Oscar Isaac in maniera abbastanza
monocorde, come se fosse la storia di chissà quale talentuoso cantante folk. E
se fosse uno come tanti? Né meglio né peggio? Solo un po’ più noioso, e
sfigato, ammettiamolo…
Non
cambia il mio giudizio, il fatto che nel 2013 a Cannes abbia vinto il Gran Prix
Speciale della Giuria, che invece non è stato dato a “Il Grande Lebowski”…
Detto
ciò, è un film da vedere e poi ascoltarsi un bel pezzo di Lester Young, to have some fun…
Lunga
vita ai fratelli Coen!
Daria D.
Con
Oscar Isaac
Carey
Mulligan
Justin
Timberlake
Ethan
Phillips
Robin
Bartlett
F.
Murray Abraham
John Goodman
Garrett Hedlund
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