Teatro Mecenate, Arezzo. Mercoledì 5 Febbraio 2014
"Che ammasso di rifiuti, che
putrido carnaio, questa Roma, che si fa usar come materia vile ad accendere il
fuoco onde s'illumina una meschina cosa come Cesare!" [Cassio, atto I, scena III]
Tre porte, una poltrona e poc'altro. Non ci si illuda
però, neppure al cospetto di un grande imperatore, l'essenziale diventa
visibile agli occhi: l'ambientazione onirica, tale fin dal principio, è pregna
di simboli che racchiudono concetti chiave di tutta l'opera. In particolare le
porte e le mani, quasi incantatrici, che da dietro le porte "sbucano"
rappresentano il potere del palazzo: pronto a sporcare le proprie mani di
sangue e nello stesso istante a pulirle vicendevolmente con le altre; pronto a
nascondersi tra le colonne, o nelle fattispecie tra le porte, del "Campidoglio"
e, nascondendo il proprio viso nel buio, a congiurare e colpire un altro
potere, uno migliore. Queste mani, oserei dire artigli, sone le mani di una
Roma avida, sporca e corrotta. In questo lavoro di controscena la compagnia è
stata costantemente presente e impeccabile, riuscendo, anche attraverso questi
escamotage scenici e stilistici, a mettere perfettamente in risalto aspetti
che, data la grande riduzione del testo, sarebbero non potuti emergere.
La regia di Baracco, infatti, scarna il testo del celebre
drammaturgo inglese, ottenendo così un brillante risultato: il raggiungimento
del'osso, del midollo della tragedia: un linguaggio riadattato, coinciso e
diretto, accessibile e allo stesso tempo nel rispetto dell'Autore, e un numero
esiguo di attori (quando si dice "pochi, ma buoni!") hanno permesso
una resa più che efficace, che non tarda a mostrarci come sia piccolo e misero
l'uomo che brama con ossessione e avidità il potere, che, oltrettutto, come
cantava un genovese un paio di decenni fa, non può mai essere buono.
In tutto ciò, nondimeno, c'è una grande assenza, quella
del protagonista: Giulio Cesare non è mai fisicamente in scena, eppure lo è
sempre indirettamente, attraverso dissidi interni e non dei e tra i vari
personaggi. Una scelta coraggiosa, ma più che mai azzeccata. Rappresentare il
potere, quello che dovrebbe essere il più nobile, con la sua assenza, non solo
è stilisticamente una scelta semantica raffinata, ma, volendo attualizzare un
po' la situazione, quanto mai una verità e una realtà dei nostri giorni. La
Roma di Shakespeare non è lontana, purtroppo, dalla nostra.
In ogni caso, Cesare rimane sulla bocca di tutti, specie
su quella dei congiurati, anche in punto di morte, quando si rendono conto
dell'errore... come spesso accade, ormai troppo tardi.
Quando le Idi di Marzo arrivano in scena, in un'atmosfera
che a qualcuno potrebbe apparire come un po' troppo pulp, Cesare è un posto
vuoto. Questa scelta, inoltre, ha permesso di dare maggior risalto anche ad
altri personaggi, in particolare Bruto e Cassio, interpretati rispettivamente
da Giandomenico Cupaiuolo e Roberto Manzi.
Sebbene non vengano ricordati come massimi esempi di
splendore, Bruto e Cassio, per non parlare anche degli altri, rimangono
ugualmente grandi esempi di uomini politici, combattuti, ciascuno a modo suo,
da forti battaglie etiche e filosofiche. Nonostante tutto, anche pensando a
loro, l'attualizzazione con gli odierni uomini politici rattrista gli spiriti.
Massimo Quarta
adattamento Vincenzo Manna e Andrea Baracco
regia Andrea Baracco
con Giandomenico Cupaiuolo, Roberto Manzi, Ersilia Lombardo, Lucas Waldem
Zanforlini, Livia Castiglioni, Gabriele Portoghese
foto Giuseppe di Stefano
scene Arcangela di Lorenzo
consulente ai costumi Mariano Tufano
disegno luci Javier Delle Monache
regista assistente Malvina Giordana
produzione 369gradi
Lungta Film/ Teatro
di Roma
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