10 marzo, 2014

Educazione siberiana: “un uomo non può possedere più di quanto il suo cuore possa amare”. Di Francesca Saveria Cimmino


Teatro Bellini, Napoli. Da martedì 04 marzo 2014 a domenica 09 marzo 2014

Tratto dal romanzo di Nicolai Lilin, riadattato da N.Lilin e Giuseppe Miale di Mauro, interpretato da Luigi Diliberti, Elsa Bossi, Ivan Castiglione, Francesco Di Leva, Giuseppe Gaudino, Stefano Meglio, Adriano Pantaleo e Andrea Vellotti, lo spettacolo, diretto da Giuseppe Miale di Mauro, nasce da un’idea di Francesco Di Leva e Adriano Pantaleo.
Educazione siberiana, titolo del romanzo di Lilin edito da Einaudi, pubblicato nel 2010 e tradotto in 19 lingue, a febbraio del 2013 è stato poi proiettato nelle sale italiane: l’omonimo film, che ha incassato 4 milioni in Italia, è stato diretto dal regista Gabriele Salvatores.
Ambientata nella Transnistria, regione dell’ex Urss, oggi Moldava, (indipendente dal 1990 ma non riconosciuto tale da alcuno Stato), l’opera narra la storia della comunità del quartiere di Fiume Basso che viveva seguendo le regole della tradizione siberiana. L’altissimo tasso di criminalità veniva combattuto dai cosiddetti “criminali onesti”, di cui il nonno Kuzja risulta essere un “guru”, specialmente per quanto concerne la formazione dei giovani del clan. “Dobbiamo avere rispetto per tutte le creature viventi eccetto che per la polizia la gente che lavora nel governo: i banchieri gli usurai e tutti quelli che hanno il potere del denaro e sfruttano le persone semplici. Rubare a queste persone è permesso”. Questo è di sicuro uno dei principi secondo i quali alla brutalità si deve sempre e comunque affiancare l’etica e un’azione si deve compiere seguendo sempre un criterio prestabilito. Non si uccide, ferisce o minaccia casualmente; non si uccidono innocenti. Esiste il rispetto ed esiste, però, la necessità di sopravvivere ed imporsi, in quanto popolo con una propria e forte identità. Tutto questo è possibile con l’unione del clan; ma qualora la corruzione del paese, delle forze dell’ordine o del traffico di soldi e droga dovesse bussare alle porte di casa e qualora qualcuno dovesse accoglierla, il meccanismo si autodistruggerebbe e non ci sarebbe salvezza alcuna. Il rischio è divenire criminali come tutti: diventare come quella stessa gente contro cui si ha sempre preso la picca, ovvero il coltello, e lottato per difendere i propri principi.  “Chi vuole troppo è un pazzo, un uomo non può possedere più di quanto il suo cuore possa amare”, questa frase è assolutamente emblematica per descrivere e comprendere la nobiltà d’animo di chi apparteneva al clan. Amicizia, lealtà e condivisione dei beni sono tra le parole chiave di una formazione tutt’altro che criminale. Si è violenti lì dove bisogna far comprendere all’altro i valori. Una delle peculiarità del gruppo degli Urka siberiani è la cultura dei tatuaggi: il corpo è un libro sul quale l’uomo imprime la propria storia, il proprio vissuto. È un diario da sfogliare, da comprendere, da studiare. Il tatuaggio è un simbolo, è l’appartenenza a una società che ha le stesse regole e per le quali chi non ha nulla stampato sulla pelle, non è riconosciuto; è una persona vuota. Tuttavia, onesti sì, ma pur sempre criminali in un mondo dove una sola cosa non finirà mai ed è la guerra: quella del popolo e quella personale. Perché, ad un tratto, arriva la necessità di fare i conti con  una società in evoluzione, pronta a degenerare e a farsi vendere e comprare. Arrivano le pistole che sostituiscono le picche. Arriva il potere e resistergli è un’ardua impresa. Non c’è salvezza, perché, come sostengono i pochi onesti ancora in vita “l’essere umano non è che una goccia di pioggia che cade nelle tenebre”; quelle tenebre dalle quali non può più rialzarsi, lasciando che la propria dignità di persona si dissolva irrimediabilmente tra le macchie di un sangue sporco e putrido. Le luci e la scenografia hanno reso perfettamente l’idea della drammaticità dell’opera; la pecca, probabilmente, è stata l’eccessiva teatralità attoriale, in cui la forzatura dell’attore/attrice distoglie l’attenzione dal valore intrinseco del concetto espresso e del testo, rischiando, talvolta di far perdere spontaneità. Qualche perplessità anche sull’unico atto.

Francesca Saveria Cimmino


di Nicola Lilin e Giuseppe Miale di Mauro
da un’idea di Francesco Di Leva e Adriano Pantaleo
regia Giuseppe Miale di Mauro
con Elsa Bossi, Ivan Castiglione, Francesco Di Leva, Giuseppe Gaudino, Stefano Meglio, Adriano Pantaleo, Andrea Vellotti
scene Carmine Guarino
luci Luigi Biondi
musiche Francesco Forni
costumi Giovanna Napolitano
cura del movimento Roberto Aldorasi

produzione Fondazione del Teatro Stabile di Torino, Teatro Metastasio Stabile della Toscana, Emilia Romagna Teatro Fondazione

in collaborazione con NestT (Napoli est Teatro)

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