UN CONDANNATO
A MORTE E’ FUGGITO
FRANCIA 1956 97’ B/N
(Un condamné à mort s’est échappé)
REGIA : ROBERT BRESSON
INTERPRETI : FRANCOIS LETERRIER, ROLAND MONOD, CHARLES LE CLAINCHE,
JEAN-PAUL DELUMEAU, JACQUES ERTAUD
EDIZIONE DVD :
SI’, distribuito da SAN PAOLO MULTIMEDIA
Lione, 1943:
prigioniero dei tedeschi nel Fort de Montluc, il tenente Fontaine (Leterrier),
membro della resistenza francese, decide di non aspettare l’esecuzione della
condanna a morte che pende sul suo capo, e a tale scopo organizza con astuzia e
pazienza un meticoloso piano di fuga, trovando nel giovanissimo compagno di
cella Jost un insperato e decisivo alleato sulla strada per la libertà.
Diario di un’evasione
secondo Bresson, uno dei registi più rigorosi ed essenziali della storia del
cinema, un vero e proprio asceta della settima arte. Agli antipodi rispetto al
successivo, classico filone carcerario all’americana, tutto imperniato
sull’azione e sulla tipizzazione dei personaggi -per fare un paio di esempi
noti: “FUGA DA ALCATRAZ” (1979) e “LE ALI DELLA LIBERTA’ “(1994)- , il regista
francese affronta un tema potenzialmente spettacolare applicando alla lettera,
come sempre, il suo credo cinematografico, sulla scia della lezione dei
fratelli Lumière: è il cinematografo, inteso come rappresentazione immediata e
senza abbellimenti della realtà, il giusto approccio ideologico alla macchina
da presa e non il cinema, visto come fabbrica di sogni e illusioni (come voleva
invece George Méliès); da qui ne consegue un utilizzo moderato e piuttosto
statico delle inquadrature, prive di quella dinamicità e dei virtuosismi
acrobatici che caratterizzano solitamente il cinema d’azione. Essenzialità,
semplicità e rigore sono dunque le regole fondamentali e sufficienti per fare
un film, almeno secondo il Maestro francese. Che ci comunica subito le sue
intenzioni con l’esplicita didascalia autografa che precede il film, un vero e
proprio manifesto programmatico, una perentoria dichiarazione di intenti:
“QUESTA E’ UNA STORIA VERITIERA, IO VE LA DO COSI’ COM’ E’ REALMENTE, SENZA
ORPELLI”…più chiaro di così! Con il trattamento bressoniano, l’avventuroso
racconto autobiografico di André Devigny (presente sul set in qualità di
consulente tecnico) che ha ispirato la pellicola viene reso nella sua parte più
umana, cioè come cronaca quotidiana, raccolta e introspettiva, della lotta di
un uomo contro una prigionia più interiore che fisica, un occasione per mettere
alla prova le proprie capacità, una sfida ai propri limiti che va oltre la
naturale volontà di sopravvivenza: “PERCHE’ LO FAI?” , gli domanda il vecchio e
rassegnato Blanchet, rinchiuso nella cella accanto, riferendosi al progetto
dell’evasione, e Fontaine gli risponde: “PER LOTTARE. LOTTARE CONTRO IL MURO,
LOTTARE CONTRO ME E CONTRO LA PORTA”. Al centro di tutto ci sono il
protagonista e il suo senso d’oppressione, come ci mostrano gli strettissimi campi e i claustrofobici
primi piani (del viso, delle mani, degli oggetti) con cui il regista segue la
lenta marcia di avvicinamento alla salvezza del tenente Fontaine; l’azione è
limitata al minimo indispensabile per mantenere la narrazione fluida e
comprensibile, e si concentra per lo più nei minuti finali, quelli
dell’evasione; per il resto, Bresson decide di rinunciavi, riuscendo comunque
ad appassionarci alla sorte del protagonista e a creare pathos e suspense
grazie a pochi, semplici elementi statici, come i rumori degli oggetti, le
espressioni dei volti e i dubbi interiori di Fontaine (Jost è un semplice
prigioniero oppure una spia?). C’è una scena all’inizio del film che è
sintomatica del rapporto che il regista ha con l’azione, e per questo vale la
pena di citarla: l’inquadratura mostra Fontaine seduto nel retro dell’auto che
lo sta portando in carcere; accanto a lui c’è un altro prigioniero, ammanettato
ad un terzo uomo che non vediamo; approfittando di una sosta della macchina per
l’attraversamento di un tram, Fontaine apre lo sportello ed esce tentando la
fuga a piedi, ma le guardie lo riacciuffano prontamente e lo riconducono al suo
posto. Ebbene, tutta la sequenza della fuga e dell’immediata cattura
susseguente avviene fuori campo, e noi riusciamo soltanto ad intuirla, poiché
la camera rimane all’interno dell’abitacolo dell’auto, fissa sulla figura
dell’altro prigioniero, il quale si mostra impassibile per tutta la durata
della scena, che si chiude con Fontaine che viene ammanettato in malo modo, con
l’ausilio del calcio di una pistola; questo lascia intuire un’imminente
violenza ai danni del protagonista, che ancora una volta però non vediamo
direttamente (la scena sfuma appena in tempo), ma la deduciamo, nella sequenza
successiva, dal viso insanguinato di Fontaine, giunto ormai alla prigione: ciò
che non è essenziale allo sviluppo della storia, non viene mostrato (ciò vale
anche per la violenza), e questo certosino lavoro di sottrazione trova la sua
giustificazione nella volontà radicale, da parte di Bresson, di raggiungere
un’assoluta purezza d’espressione. La trasparenza innanzi tutto, come nel caso
dell’opera presente: il voto di povertà, o, meglio, di essenzialità, la
caratterizza ad ogni livello, compreso quello recitativo, con la scelta di
utilizzare attori non professionisti ai quali viene imposta una recitazione
sottotono e monocorde, vedere l’impressionante e costante assenza di espressione
nel volto del protagonista per credere; e compreso, infine, quello uditivo, con
la rinuncia ad una colonna sonora vera e propria, eccezion fatta per il
ricorrente quanto suggestivo utilizzo della “MESSA IN DO MINORE” di Mozart,
unico spazio musicale in un film dominato dai rumori e dai silenzi. La sola,
apparente concessione alle esigenze dello spettacolo sembra essere l’utilizzo
dell’io narrante, impiegato in realtà per esprimere la dimensione
essenzialmente intima della vicenda, così come viene elaborata nella mente del
fuggiasco. Il risultato dà pienamente ragione al “cinema delle origini”
professato dal regista: quello cui ci troviamo di fronte è un assoluto
capolavoro, uno struggente ed emozionante canto di libertà –tanto fisica quanto
mentale- condotto con estremo pudore e innervato da una continua ed elevata
tensione morale, il tutto all’insegna di un voluto pauperismo, ottenuto grazie
all’impiego di un’ineguagliabile razionalità di utilizzo dei mezzi espressivi
del cinema. Finale liberatorio, tanto per i due evasi quanto per noi
spettatori, con la macchina da presa che finalmente ci concede un po’ di
respiro con un campo lungo, emblematicamente rivolto, tuttavia, verso un
orizzonte di oscura incertezza.
Il film è conosciuto
anche con il titolo originale alternativo “LE VENT SOUFFLE OU’ IL VEUT”,
perché, secondo le parole dello stesso Bresson, “IL FILM E’ UN MISTERO. IL
VENTO SOFFIA DOVE VUOLE”.
Oltre alla classica
edizione DVD, il film è disponibile anche nel bel cofanetto cartonato della collana
“Grandi film/grandi firme”, edita sempre da “SAN PAOLO”, che al disco aggiunge
un breve ed interessante saggio del critico Claudio G. Fava.
Francesco
Vignaroli
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