05 giugno, 2014

« Locke ». Regia di Steven Knight. Recensione di Daria D.


Perdere tutto, famiglia, casa, lavoro ma conquistare la dignità di uomo, almeno una volta nella vita.
E’ quello che succede a Ivan Locke, interpretato da Tom Hardy con la dovuta misura anglosassone, espressivo, coinvolgente, su di lui un primo piano che dura ottantacinque minuti, tutto filmato dentro un solo ambiente: una macchina che viaggia nella notte, lungo le autostrade inglesi, direzione Londra.
Il film, che si svolge quasi in tempo reale, da quando il protagonista lascia il posto di lavoro, un cantiere di costruzioni, a quando arriva a destinazione, è il tipico movie on the road, affidato alla recitazione e all’ottima sceneggiatura per acquistare un bel valore cinematografico.
Locke, di cui vediamo nella prima inquadratura solo le scarpe sporche di cemento, che si toglie prima di entrare nella BMW, è un uomo che sul lavoro non ha mai commesso uno sbaglio, e nemmeno questa notte, così speciale e difficile, mentre sta andando ad assistere, durante il parto, la donna che ha messo incinta, nonostante abbia già una famiglia, vuole fallire.




Una grossa quantità di cemento sta per essere scaricata alle prime luci dell’alba per la costruzione di un palazzo e lui dovrebbe essere ad accoglierla, ma la stessa notte riceve la telefonata da quella donna che lui definisce fragile, sola, bisognosa d’amore, in cui gli chiede di starle vicina mentre partorirà il loro bambino. Ricordandosi con rabbia e risentimento di suo padre, Locke lo immagina seduto nel sedile posteriore della macchina, che lo aveva abbandonato alla nascita senza riconoscerlo, non vuole commettere lo stesso errore, facendo soffrire un altro essere umano.
Allora, pur non amando quell'occasionale amante,  lei gli chiede “mi ami?” e lui risponde “come posso amati?”, decide di assumersi le sue responsabilità, di fare una scelta forte che lo ripulisca, in fondo all’anima, dell'errore compiuto. Di fronte a tutto il resto, la dignità di uomo dovrà prevalere, costi quel che costi, per non assomigliare a quel padre che ne era completamente privo.
Mentre è al volante, sarà un continuo susseguirsi di telefonate con il collega di lavoro, il capo, il figlio, il dottore, l’amante, la moglie cui confesserà finalmente il suo tradimento, ma lei lo accuserà senza sentire ragioni, a parte le sue, intimandogli di non tornare più a casa.
Il finale del film rimane imprevedibile fino alla fine e non intendo svelarlo.
Grazie anche al montaggio che alterna il viso di Locke alle luci della strada, allo schermo del telefono satellitare, alle altre macchine, ai palazzi di periferia, questo film low budget rappresenta l’essenza della drammatizzazione quando si avvale del mezzo cinematografico: raccontare una storia significativa, senza bisogno di effetti speciali che molto spesso sono usati per coprire una mancanza d’idee, con la suspense giusta per catturare l’attenzione dello spettatore, una buona recitazione, una fotografia adeguata alla situazione, un finale non banale, un messaggio semplice e comprensibile da tutti. Lasciando negli spettatori, se possibile, un momento per guardarsi dentro, per trovare similitudini, per riflettere sulle loro vite.
Se un film riesce in questo intento, è un film di successo, anche se si è speso poco, perché con i soldi non si fanno necessariamente bei film, se mancano storie significanti. Si fanno soltanto film più ricchi e, molto più probabilmente, più vuoti.

Daria D.


Locke.  Regia di Steven Knight
Soggetto e sceneggiatura di Steven Knight
Con Tom Hardy
Olivia Colman
Ruth Wilson
Andrew Scott
Ben Daniels
Tom Holland

Fotografia Haris Zambarloukos
Montaggio Justine Wright
Musiche Dickon Hinchliffe
Costumi Nigel Egerton


USA, GB 2013 durata 85 min

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