THE KILLER HONG KONG 1989 106’ COLORE
(Die xue shuang xiong)
REGIA: JOHN WOO
INTERPRETI: CHOW
YUN-FAT, DANNY LEE, SALLY YEH, CHU
KONG
EDIZIONE
DVD: SI’, distribuito da BIM/ 20TH CENTURY FOX HOME ENTERTAINMENT
Dopo aver accidentalmente provocato la
cecità di una cantante nel corso di una sparatoria, il killer Jeffrey (Chow),
roso dal rimorso, medita di chiudere con la propria professione decidendo di prendersi
cura della ragazza; accetterà un ultimo incarico solo per procurarsi il denaro
necessario al trapianto di cornee che potrebbe ridare la vista alla sua
vittima, che nel frattempo, ignara della vera identità di Jeffrey, si è
innamorata di lui; l’iniziale tradimento di un amico –che poi si riscatterà- e
soprattutto la caccia scatenatagli contro dal boss che gli ha commissionato
l’ultimo delitto, deciso ad eliminarlo in quanto potenziale testimone scomodo,
condurranno Jeffrey verso un’epica resa dei conti col destino (all’interno di
una chiesa!), per affrontare la quale troverà un insperato alleato
nell’ispettore Lee, l’ostinato poliziotto che lo sta braccando, rimasto colpito
dalla sua nobiltà d’animo.
Il capolavoro del primo e migliore
John Woo (cioè quello antecedente allo sbarco ad Hollywood), che porta a
compimento il discorso iniziato nel dittico di A Better Tomorrow, vero e proprio punto di svolta per il cinema di
Hong Kong, in cui avviene il passaggio dal classico wuxiapian -il cinema di “cappa e spada”- al noir iperrealista di ambientazione metropolitana, grazie alle intuizioni
di Woo e del produttore e regista Tsui Hark, autori di uno strappo alla
tradizione hongkonghese paragonabile a quello operato da Bruce Lee all’inizio
degli anni ’70 e che ha in Jean Pierre Melville e Sam Peckinpah i principali
ispiratori. Insieme al grande Wong Kar-Wai (regista del capolavoro In The Mood for Love), Tsui Hark e John
Woo hanno rivitalizzato –ciascuno a modo suo- l’intramontabile scuola di Hong
Kong, capace di conservare nei decenni la propria identità e autonomia
artistica malgrado le alterne vicissitudini politiche e salita finalmente alla
ribalta mondiale del cinema d’autore.
The
Killer
ripropone, in una sorta di continuità ideologica con le due pellicole
precedenti, tutti i temi cari al regista: l’amicizia, il sacrificio, l’onore, la
violenza come atto d’eroismo inevitabile, il bisogno di redenzione, il
sentimentalismo, il rimpianto del tempo perduto, il confronto tra il codice
etico della vecchia mala e l’amoralità di quella attuale, la lotta impari
contro un mondo irrimediabilmente degradato. I personaggi, ben lungi dal
manicheismo semplicistico e piatto che caratterizza buona parte dei blockbuster d’azione americani, sono
figure a tutto tondo complesse e piene di contraddizioni, cioè di impalpabili
sfumature di grigio che conferiscono loro spessore e umanità, come nel caso
dell’ispettore Lee, un uomo combattuto tra il proprio dovere e l’ammirazione
per la sua “preda”, frutto della graduale scoperta di un’affinità ideologica ed
empatica che lo porta, segretamente, a parteggiare per Jeffrey fino a decidere
di unirsi a lui nella “missione impossibile”: sconfiggere –in due- un’intera gang di malviventi, facendo piazza
pulita del marciume. Che dire poi del protagonista Jeffrey? Un assassino freddo
e spietato solo contro il mondo, che per certi aspetti può ricordare il Jeff
Costello interpretato da Alain Delon nell’epocale Le Samourai di Melville (1967, da noi conosciuto come Frank Costello faccia d’angelo): come
Jeffrey, anche Jeff (un’assonanza nei nomi casuale?) è un “malato di solitudine”
che finisce per essere tradito dai committenti, ritrovandosi con le spalle al
muro; ma Jeffrey, a differenza di Jeff, mostra un notevole lato umano che
convive con quello mostruoso: l’impassibile killer è al tempo stesso un uomo
gentile dai modi raffinati ed eleganti e dall’animo profondamente romantico ed
eroico, che non esita a mettere a repentaglio la propria vita per salvare
quella di una bambina accidentalmente coinvolta in una sparatoria (la seconda
vittima innocente del film), e che sprofonda in una forte crisi interiore
scatenata dal ferimento della cantante Jenny, crisi che scardina le residue
certezze dell’uomo portandone definitivamente alla luce la parte buona. Ma
Jeffrey è anche un uomo determinato e pienamente consapevole delle proprie scelte,
pronto ad assumersi fino in fondo le proprie responsabilità –dote piuttosto
rara nella vita reale- accettando quindi le conseguenze delle proprie azioni, forte
di una serenità interiore quasi religiosa che lo porta ad andare incontro alla
morte con eroico stoicismo, in un atto autodistruttivo che si configura come
volontario e lucido sacrificio di sé al cospetto del Male che opprime il mondo
(in seguito la figura del solitario antieroe tragico votato all’autodistruzione
ricorrerà spesso –pur se in una chiave ideologica e stilistica differente- nei primi film del geniale Takeshi Kitano, a
partire dall’opera d’esordio Violent Cop,
che tra l’altro è del 1989, proprio come The
Killer). Perfettamente sostenuto dall’ennesima prova magistrale del grande
Chow Yun-Fat (uno degli attori preferiti dal regista, che lo ha voluto in tutti
i suoi film d’azione girati ad Hong Kong), Woo costruisce un personaggio
affascinante e suggestivo, ammantato da un’aura di eroismo antiretorico e
coinvolgente quasi impensabile -salvo eccezioni, come Scorsese- nel cinema
occidentale contemporaneo. Pienamente convincente anche la figura del
co-protagonista, ben interpretato da Danny Lee, che se da un lato ripropone il cliché del Poliziotto solitudine e rabbia –per citare il bel “poliziottesco” d’annata
(1980) di Stelvio Massi interpretato da Maurizio Merli, il poliziotto per eccellenza del cinema italiano-
ossessionato dal proprio lavoro e osteggiato dai superiori a causa delle sue
iniziative personali, dall’altro arricchisce la figura del “tutore dell’ordine”
instillandogli dubbi ed incertezze circa il Bene e il Male che lo rendono più
umano e affascinante, oltre che qualcosa di diverso e di più che una semplice
“macchina ammazza-cattivi”. L’ispettore Lee, fondamentalmente, è fatto della
stessa pasta di Jeffrey, cosa che entrambi percepiscono immediatamente, ed è
per questo che non può che “fare il tifo” per lui: oltre a rivaleggiare con il
killer quanto ad intelligenza e istinto, Lee è animato dal medesimo, fortissimo
fino ai confini di Utopia, codice etico che muove Jeffrey, il quale altri non è
che un enigmatico ossimoro vivente, una contraddittoria combinazione di crimine
ed eroismo di potente suggestione e carisma. Ed è proprio in virtù di un
intransigente desiderio di giustizia e di pulizia morale che anche Lee va fino
in fondo, decidendo di rendere onore all’amico caduto –per mano del boss, che prima lo ha anche accecato- compiendo
un gesto estremo che gli costerà carriera e libertà ma che chiuderà finalmente
il cerchio, e con esso il film.
Rispetto ad A Better Tomorrow, questa storia esprime con maggiore intensità il
senso tragico dell’esistenza ed il pessimismo di fondo di Woo (concetti che
raggiungeranno il parossismo nell’apocalittico Bullet in the Head), che ha il coraggio di operare sempre le scelte
più dolorose: nello scontro tra Bene e Male non c’è scampo per nessuno, nemmeno
per gli innocenti –i civili- che si ritrovano in mezzo (Jenny, la bambina, il
prete…). La violenza umana non ha limiti, e si spinge perciò in direzione di un
assoluto nichilismo: nel corso della sparatoria finale, in una delle scene più
forti del film, i sicari del boss irrompono nella chiesa (abituale rifugio, forse
anche spirituale, di Jeffrey, attratto dal senso di pace che il luogo esprime)
sparando all’impazzata e facendo letteralmente esplodere persino la statua
della Madonna col bambino; di una disperazione quasi insostenibile, poi, la
scena che precede il finale: ormai cieco e in punto di morte, Jeffrey striscia
sul terreno in cerca di un ultimo contatto con Jenny, anche lei impegnata nello
stesso sforzo; ma i due si mancano, e mentre Jeffrey muore Jenny lo supera
senza accorgersene, continuando a cercarlo invano vagando nell’oscurità…
Prima di chiudere, trovo importante
spendere qualche parola sul versante tecnico, poiché la continuità con la
mini-saga di A Better Tomorrow si
esprime anche –e soprattutto- a livello stilistico: il noir secondo John Woo è un insieme di stilemi che hanno fatto
storia, come la geometrica perfezione delle coreografie delle scene di
violenza, che hanno portato la critica a paragonare le sparatorie “alla Woo” a
dei balletti, o l’abbondante ricorso al ralenti
in chiave allucinatoria e antinaturalistica o, ancora, il magistrale utilizzo
degli spazi, con una Hong Kong tutt’altro che da cartolina ma comunque
suggestiva. La violenza è un elemento costante di questi film, ma la sua
terribile concretezza e durezza è stemperata e sublimata dalla forte
stilizzazione cui è sottoposta da Woo, che riesce a fare di ogni sua opera una vera
e propria gioia per gli occhi, forte di un gusto estetico inimitabile che si è
portato dietro, facendo scuola, anche negli States. Suggestive e adatte
all’atmosfera del film le musiche di Lowell Lo, mentre risulta penalizzante,
come spesso accade con i film asiatici, il doppiaggio italiano, al quale è
preferibile la traccia audio originale con i sottotitoli.
Il titolo originale del film significa
“Due proiettili eroici”.
Francesco
Vignaroli
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