EL
TOPO MESSICO 1971 120’ COLORE
REGIA:
ALEJANDRO JODOROWSKY
INTERPRETI:
ALEJANDRO JODOROWSKY, JACQUELINE LUIS, MARA LORENZIO, DAVID SILVA, ALFONSO ARAU,
ROBERT JOHN
EDIZIONE
DVD: SI’, distribuito da RARO VIDEO
“LA
TALPA E ’ UN ANIMALE CHE SCAVA GALLERIE
SOTTOTERRA, IN CERCA DEL SOLE. A VOLTE LA STRADA
LO PORTA IN SUPERFICIE. QUANDO VEDE IL SOLE, RESTA CIECO”
Dopo aver fatto giustizia del
Colonnello e dei suoi uomini, una banda di assassini pervertiti e torturatori,
il misterioso pistolero in nero El Topo (Jodorowsky), sedotto e traviato dalla
donna che ha liberato, affronta e sconfigge con l’inganno i Quattro Maestri
Pistoleri del deserto, sprofondando così nella perdizione. Colpito a morte
dalla donna, che lo tradisce per seguire l’altrettanto enigmatica pistolera che
li ha accompagnati durante la missione, viene salvato e curato da una comunità
di freaks, uomini deformi che gli
abitanti del vicino villaggio –la “città di Dio”- hanno confinato in una
profonda e inaccessibile caverna all’interno di una montagna. Completamente
trasformato sia nel corpo che nello spirito, El Topo (cioè “La Talpa ”) decide che la sua nuova missione sarà racimolare
il denaro necessario a comprare la dinamite per scavare un tunnel nella
montagna, in modo da poter liberare i
suoi salvatori; a tale scopo, si adatta a elemosinare facendo il saltimbanco
nel villaggio, un luogo degno di Sodoma e Gomorra…
Rispetto alle usuali definizioni di
“western metafisico”, “western surrealista” o “psicowestern”, personalmente
preferirei parlare piuttosto di “western lisergico” o, meglio ancora, di “western
andato a male”, ma si tratterebbe sempre di etichette di comodo: in realtà il
secondo film del regista, attore, sceneggiatore, uomo di teatro, mimo,
scrittore, fumettista, pittore, esoterista nonché alchimista Alejandro
Jodorowsky -cileno di origini russe, meglio conosciuto come “Jodo”- è, come
tutti gli altri (pochi, purtroppo) suoi film, un’opera assolutamente
inclassificabile, sui generis,
sperimentale, espressione di un credo cinematografico genuinamente underground (priorità alle esigenze e
urgenze artistiche, rifiuto dei compromessi e della “commercialità”, massima
libertà d’espressione) e frutto di un sincretismo artistico e culturale che
attinge ad innumerevoli fonti tra le quali il western è solo la più evidente:
ambientazione, atmosfera e costumi richiamano apertamente il genere,
soprattutto nella sua declinazione italiana- cioè lo “spaghetti-western”- , con
riferimento tanto al Maestro Sergio Leone, per il quale Jodo non ha mai
nascosto la propria enorme ammirazione, quanto agli epigoni (il look di El Topo
ricorda quello del “Django” di Corbucci); per quanto riguarda Leone, in
particolare, El Topo contiene almeno
tre gustose citazioni più o meno esplicite della “Trilogia del Dollaro”: lo
scontro iniziale, con i protagonisti in attesa che cessi il rumore di un
palloncino che si sgonfia per dar via alle ostilità, sembra una parodia del
duello finale scandito dal carillon tra il Colonnello Mortimer/ Lee Van Cleef e
“L’indio”/Gian Maria Volonté di Per
qualche dollaro in più; la resa dei conti nell’enorme spiazzo circolare tra
El Topo e il Colonnello (un maldestro e patetico imitatore di Napoleone)
ricorda il celebre “triello” al cimitero de Il
buono, il brutto e il cattivo; l’espediente del piattino di rame a
protezione del cuore utilizzato da El Topo per sconfiggere il Terzo Maestro è
lo stesso escogitato da Joe/ Clint Eastwood (che si piazza una lastra di
acciaio sotto il poncho) per rendersi
invulnerabile alle chirurgiche fucilate al cuore sparategli dal terribile
Ramon/ Gian Maria Volonté nel memorabile finale di Per un pugno di dollari; tipicamente leoniani sono poi sia i tocchi
grotteschi ed ironici che punteggiano qua e là la storia, sia l’atteggiamento
guascone ed eccessivo del protagonista (che si permette, ad esempio, di dare le
spalle al Colonnello all’inizio del duello). Il western è dunque indubbiamente
importante nell’economia del film, ma si limita a caratterizzarlo più che altro
a livello “cosmetico”, estetico, superficiale: la storia, come vedremo più
avanti, si mantiene –faticosamente- entro i binari di un simil-western solo fin
poco oltre la metà della sua durata, poi deraglia improvvisamente, per
cominciare un nuovo viaggio che poco o nulla ha da spartire con quanto visto in
precedenza e che per questo può portarci a considerare El Topo un film “doppio”, cioè un’opera contenente due film in uno.
Come già detto sopra, i riferimenti di Jodo sono talmente ampi ed eterogenei
tra loro che non poteva che venirne fuori un prodotto indefinibile, refrattario
a qualunque tentativo di collocazione all’interno di un genere ben definito.
Rimanendo nell’ambito delle fonti
cinematografiche, si possono riscontrare anche echi felliniani ( i clowneschi e
gaudenti personaggi della città di Dio, le marcette circensi che riecheggiano
le partiture di Nino Rota), rimandi a Sam Peckinpah (l’uso della violenza) e
inquadrature “alla Kurosawa”, senza dimenticare il Tod Browning di Freaks (per la scelta di personaggi
menomati e il rilievo che viene dato loro) e, ultimo ma non certo per
importanza, il surrealismo, che Jodo mutua dalla lezione del grande maestro
spagnolo Luis Bunuel, uno dei padri fondatori del movimento surrealista negli
anni ’20 e, insieme al già citato Browning, un regista che, specie nel periodo
messicano (anni ’50), ha utilizzato spesso i freaks nelle proprie pellicole. Sospensione delle regole della
realtà -come l’acqua che sgorga dalle rocce del deserto-, improvvise infrazioni
alla logica narrativa con personaggi femminili con voci maschili e viceversa,
fugaci visioni oniriche…si tratta di espliciti rimandi al surrealismo
bunueliano che, soprattutto nella prima parte del film (quella ambientata nel
deserto), la fanno da padrone, rivelando tutta la passione che il regista ha
per una filosofia artistica con la quale è entrato in contatto a Parigi negli
anni ’50, rimanendone talmente affascinato da fare del surrealismo uno dei
pilastri del movimento artistico “PANIQUE” (in omaggio al Dio Pan, che suona il
flauto proprio come El Topo) da lui fondato, nel 1962, insieme agli scrittori
Francisco Arrabal e Roland Topòr. Importante, infine, anche se in questo caso
parliamo più di teatro che di cinema, è il riferimento al cosiddetto “teatro
della crudeltà” (la violenza come denuncia, risveglio delle coscienze, evento
catartico), in ossequio al quale Jodo non ci risparmia “salutari” shock e colpi
bassi, come le torture inflitte ai frati dai banditi -che si divertono pure a
uccidere a caso-, l’evirazione del Colonnello da parte di El Topo o, verso la
fine, la morte del bambino alla roulette russa.
Detto ciò, per capire come è nato El Topo non è sufficiente soffermarsi ai
riferimenti cinematografici: il film è il risultato dei vasti interessi di Jodo
in ambito artistico, filosofico e, soprattutto, religioso. Quest’ultimo aspetto
è di capitale importanza e risulta fondamentale nel determinare il brusco
cambiamento d’atmosfera, e di genere narrativo, che la storia subisce negli
ultimi 45 minuti. Occorre premettere che Jodo, pur provenendo da una famiglia
di fede ebraica, non si è mai dichiarato apertamente credente in una
particolare fede, trovando invece motivi di interesse un po’ in tutte le
confessioni, da vero appassionato di misticismo e di storia delle religioni. Se
il rapporto con le Sacre Scritture (sia l’Antico che il Nuovo Testamento) viene
esplicitato dai titoli dei quattro capitoli che suddividono grossolanamente il
film (Genesi, Profeti, Salmi e Apocalisse), oltre che da varie
citazioni “visive” più o meno comprensibili di passi ed episodi biblici (forse
la più evidente è quella delle ferite-stimmate provocate a El Topo dalle
pistolettate delle due donne), altrettanto importante è l’influenza dello
spiritualismo orientale di matrice buddista, alla luce del quale è forse possibile
trovare un filo conduttore alla storia, che può essere riletta come
l’originalissimo itinerario di purificazione e redenzione di un uomo che dalla
schiavitù del peccato (dei desideri) chiude la propria esistenza in odore di
santità. Vediamo il perché: nella prima parte del film, quella più “western”,
avventurosa, dinamica e, almeno per me, più affascinante (i duelli con i
Quattro Maestri si configurano come confronti di natura mistico-filosofica
ancor prima che fisica, e sono spesso preceduti da pillole di saggezza elargite
dai Maestri, brevi aforismi di filosofia condensata molto suggestivi), il protagonista
è un sanguinario e implacabile giustiziere vestito di nero, barba e capelli
lunghi, un uomo freddo e violento che non esita ad abbandonare in un monastero
il proprio figlioletto di 7 anni –interpretato dal vero figlio di Jodo,
Brontis-, un individuo ambizioso e smisuratamente egocentrico: “CHI SEI TU, PER
FARE GIUSTIZIA?”, gli domanda il Colonnello, ormai sconfitto. “SONO DIO”,
risponde colmo di esaltazione El Topo, che perde definitivamente la bussola a
causa dell’amore per l’ambigua e tentatrice donna –novella Eva- che ha salvato
alla missione francescana, un lupo travestito da agnello. La donna istiga il
pistolero ad affrontare i Quattro Maestri Pistoleri per dimostrarle, come pegno
d’amore, di “ESSERE IL MIGLIORE”; la prospettiva non fa altro che rinfocolare
l’ambizione di El Topo, che non esita a barare pur di raggiungere l’obiettivo,
sprofondando in una progressiva dissoluzione morale che lo porterà, una volta
compiuta la missione, alla disperazione più nera: El Topo ha appena completato
il proprio cammino di “negazione della conoscenza”, ha toccato il fondo, ha
raggiunto il culmine della dannazione. E’ a questo punto che la sua vita
subisce una svolta radicale (ed è qui che il film cambia completamente
registro): sopra ad un ponte sospeso, la pistolera che si è unita a El Topo e
all’amata nel corso della sfida ai Maestri, aggredisce improvvisamente l’uomo a
pistolettate mentre questi, in piena crisi spirituale, sta invocando Dio; El
Topo, svuotato ormai di ogni pulsione vitale, non si sottrae ai colpi della
donna e si lascia martirizzare fino al colpo di grazia, che gli viene inferto
dall’amata, che lo tradisce per amore dell’altra donna: è appena andata in
scena la morte (solo simbolica?) del “vecchio” El Topo. Ridotto in fin di vita,
viene trascinato da un gruppo di freaks
all’interno di una grotta dove riceve pazienti cure nella lunga attesa del
risveglio; finalmente guarito, per prima cosa l’uomo, ora rivestito solo da una
tunica cenciosa, si rade barba e capelli a zero, come un bonzo tibetano: è la
catarsi, la rinascita, la rinuncia totale al proprio ego, il passaggio dal
sentirsi Dio al sentirsi nulla. Rinnovato, rigenerato dalla mortificazione
dell’io, l’uomo può iniziare il cammino spirituale verso l’illuminazione, verso
il conseguimento della santità. Adesso è diventato veramente El Topo, La Talpa : la sua ragione di
vita è la difesa degli ultimi, cioè degli emarginati che lo hanno salvato, cui
promette di regalare la libertà scavando un tunnel che dal ventre della
montagna possa finalmente ricondurli all’agognata luce del sole. Comincia una
nuova vita, e con essa un nuovo film: lo psicowestern lascia il posto ad una
parabola grottesca dai risvolti drammatici, l’onnipotente pistolero è diventato
un umile “giullare di Dio”, completamente trasfigurato (anche il linguaggio
corporeo del personaggio cambia totalmente, come se lo interpretasse un altro
attore!). In vista del suo obiettivo, El Topo ha deciso di rinunciare alla
violenza (almeno per ora) e, pur di aiutare i suoi nuovi amici, si adatta a
fare lavori umili (come la pulizia dei cessi) alle dipendenze dei mostruosi-
loro, sì- abitanti del villaggio: la “città di Dio” è dominata da un’aberrante
borghesia razzista, crudele, violenta –che, secondo alcuni critici,
rappresenterebbe la società capitalista nord-americana, verso la quale Jodo non
ha mai nutrito grande stima-, degradata, perversa e dedita alle più
inenarrabili turpitudini, celate a malapena sotto il velo di un ipocrita
fanatismo religioso sbandierato attraverso solenni processioni e incredibili
riti miracolistici (la roulette
russa), il tutto sotto l’esoterico “occhio di Dio”, che ha soppiantato il crocifisso.
Jodorowsky descrive questa borghesia con irridente ferocia –proprio come il
maestro Bunuel- e cupo pessimismo: una volta liberi, i freaks del sottosuolo corrono verso il villaggio per venire
abbattuti uno dopo l’altro dalle fucilate dei “padroni”, per i quali la parola
integrazione è un termine privo di significato. El Topo, che assiste impotente
al massacro, prende atto del fallimento della sua utopia e, dopo aver ripreso
le armi per fare giustizia, decide di porre fine alla propria esistenza alla
maniera di un bonzo, quale lui è diventato: dandosi fuoco, seduto nella
posizione raccolta “del loto”. Ai due figli il compito di proseguire la sua
opera, in un sequel più volte
annunciato ma mai realizzato.
In conclusione (finalmente!), El Topo è un’opera sperimentale,
disomogenea, delirante, a tratti anche ermetica, disseminata di simboli arcani
e incomprensibili (entrano in gioco pure Cabala e numerologia, tanto per…), ma
comunque affascinante e, a mio parere, riuscita. E’ anche forse il film più
personale e genuino di Jodo, che qui mette davvero tutto se stesso: da vero one man-band dirige, recita, firma
sceneggiatura e musiche, si occupa dei costumi e delle scenografie, produce
(per la sua Producciones Panic).
Un’ultima curiosità: per le scene al
villaggio, il regista ha riciclato il set abbandonato del celebre western L’ultimo colpo in canna (Day of the Evil Gun, 1968), interpretato
dal grande Glenn Ford.
L’edizione DVD della RARO VIDEO, a due
dischi, accoppia El Topo con La Montagna Sacra (1973), forse
il film più celebre di Jodorowsky, aggiungendo pure un interessante libretto
curato da Bruno Di Martino.
Francesco
Vignaroli
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