AURORA USA 1927 91’ B/N
(Sunrise
– A song of two humans)
REGIA: FRIEDRICH WILHELM MURNAU
INTERPRETI: GEORGE ‘O BRIEN, JANET GAYNOR, MARGARET
LIVINGSTON, BODIL ROSING
EDIZIONE
DVD: SI’, distribuito da BIM
Estate. L’arrivo, tra i villeggianti,
dell’ammaliante Donna della Città sconvolge la tranquillità di un villaggio di
campagna in riva al lago: la donna seduce un agricoltore, che per lei trascura
famiglia e lavoro, e lo convince a liberarsi della moglie affogandola durante
una gita in barca; ma l’uomo all’ultimo momento ci ripensa, provocando comunque
la fuga della consorte che sale su un tram e arriva in città seguita dal marito,
il quale tenta di tutto per farsi perdonare. Dopo aver assistito casualmente ad
un matrimonio, i due si riconciliano e cominciano una vera e propria seconda
Luna di Miele godendosi i divertimenti della città finché, giunti a sera,
decidono di tornare a casa; ma durante la traversata notturna del lago un’improvvisa
e violentissima tempesta li fa naufragare. L’uomo si salva a stento, mentre
della moglie non c’è traccia, nonostante tutti gli abitanti del villaggio si
siano mobilitati alla sua ricerca; solo grazie alla tenacia di un vecchio la
donna viene ritrovata e portata a casa sana e salva. Passata la bufera, si
accendono le prime luci del nuovo giorno e, mentre la moglie recupera
lentamente le forze sotto lo sguardo pieno d’amore del marito, la Donna della Città capisce
che è arrivato il momento di andarsene…
Anno cruciale, il 1927, per la storia del
cinema: da un lato, almeno quattro capolavori del muto quali il celebratissimo Metropolis di Fritz Lang (di cui ci
siamo già occupati circa un anno fa –era il 27 Luglio- in occasione della
memorabile proiezione cortonese con tanto di accompagnamento musicale dal vivo
da parte dell’ORT, nell’ambito della seconda edizione del “Cortona Mix
Festival”), Il vento dello svedese
Victor Sjostrom, il monumentale Napoleon
di Abel Gance e il qui presente Sunrise,
primo film americano del geniale quanto sfortunato regista tedesco Friedrich W.
Murnau, autore di capolavori immortali come Nosferatu,
L’ultima risata e Tabù, scomparso prematuramente nel 1931 a soli 42 anni per un
incidente automobilistico; dall’altro lato, il 1927 segna al tempo stesso, dopo
l’apice, anche la fine del cinema muto con l’arrivo del primo film sonoro della
storia, Il cantante di Jazz di Alan
Crosland. La rivoluzione del sonoro provoca un vero e proprio terremoto nel mondo
del cinema: molti tra i grandi registi e attori dell’epoca si ritrovano disorientati
di fronte alla fulminea ed inesorabile avanzata del progresso e per alcune
stelle di prima grandezza (come il regista David W. Griffith o l’attore comico
e regista Buster Keaton), incapaci o contrarie ad adattarsi al nuovo corso, ciò
significherà il tramonto; tra i primi a superare la crisi e a cavalcare l’onda
c’è Fritz Lang (massimo esponente, insieme a Robert Wiene, della defunta,
leggendaria scuola espressionista tedesca)
, che risponde con l’ottimo M,
preludio ad una lunga serie di capolavori che il regista, allontanatosi dagli
orrori del nazismo, realizzerà negli USA; dal canto suo, il grande Charlie
Chaplin è tra gli ultimi ad arrendersi all’avvento del sonoro, proseguendo
orgogliosamente nel segno della tradizione fino alla metà degli anni trenta -quindi
ampiamente fuori tempo massimo- con opere da un punto di vista tecnico “ibride”
(il regista continua ostinatamente a rinunciare ai dialoghi ma realizza nel
contempo “commenti sonori” ai film) ma ancora apertamente debitrici dell’epopea
del muto, quali i due capolavori Luci
della città (1931) e Tempi moderni (1936); per ammirare il
primo film in cui Chaplin sfrutta appieno le possibilità del sonoro inserendo i
dialoghi oltre alle musiche (realizzando quindi un film “parlato”) occorre
attendere il successivo Il Grande
dittatore, del 1940. Da questo punto in poi, il cinema muto finisce
definitivamente in soffitta, salvo sporadici e occasionali “recuperi” d’autore,
come il meraviglioso mediometraggio Film (1964),
unica, memorabile incursione cinematografica (su testo di Samuel Beckett) del
regista teatrale Alan Schneider, che per l’occasione strappa all’oblio l’ormai
vecchio e malato ex-eroe del cinema muto Buster Keaton, regalando un ultimo ed
insperato colpo di coda ad una carriera e ad una vita prossime alla fine
(l’attore muore infatti poco dopo la fine delle riprese). Per il resto, nei
decenni a seguire, a mantenere in vita la memoria e l’interesse per il Cinema
delle Origini e per i fasti che furono hanno contribuito soltanto le rassegne
d’essai (ma si parla di eventi
seguiti quasi esclusivamente da ristrette cerchie di appassionati) e
l’instancabile opera di restauro di enti come la Cineteca di Bologna che,
grazie anche alle nuove possibilità tecniche garantite dai supporti digitali
DVD e BLU-RAY, hanno aperto una piccola breccia nel mercato home-video. Finché, siamo nel 2011, un
lampo scocca nel buio: il regista Michel Hazanavicius gira The artist, un film muto che, nell’era del digitale e del 3D,
sembra quasi uno scherzo di cattivo gusto, e invece la pellicola trionfa agli
Oscar oltre che al botteghino, giusto riconoscimento per un’operazione lodevole
e riuscita qual è l’aver ricordato al Mondo, attraverso un omaggio affettuoso
ed intelligente all’insegna del “come eravamo” , il glorioso –e rimosso-
passato del cinema prima dell’avvento del sonoro. Nella forma di una commedia
sentimentale che riesce a commuovere ed intenerire, il film rievoca il
tumultuoso periodo che va dalla fine degli anni ’20 (con in mezzo quindi la
devastante crisi del ’29) ai primi anni ’30, attraverso le vicissitudini
del’ormai ex-divo del muto George Leonard (interpretato da un indimenticabile
Jean Dujardin), che non si rassegna al cambiamento dei tempi nonostante l’arrivo
del sonoro e la crisi lo abbiano ridotto sul lastrico; il protagonista
assomiglia, tanto nell’aspetto quanto in alcuni aneddoti vissuti, all’attore
John Gilbert, una vera e propria leggenda del cinema muto (La grande parata, La vedova
allegra) e una tra le vittime più illustri del nuovo corso determinato dal
sonoro, in triste compagnia dell’altro grande divo dell’epoca Douglas Fairbanks
( l’eroe avventuroso per eccellenza, interprete di opere come Il segno di Zorro e Il Ladro di Bagdad), anch’egli utilizzato come riferimento nella
creazione del personaggio George Leonard. Perdonatemi la parentesi storica ma
mi è sembrato il modo migliore per accogliere ed introdurre Aurora, il primo film muto ad essere
ospitato nella nostra rubrica VIAGGIO ATTRAVERSO L’IMPOSSIBILE, un privilegio
più che meritato dato lo spessore artistico di questa pellicola!
Aurora, ovvero la canzone
di due esseri umani, una canzone la cui semplicità e limpidezza ne fanno un
motivo universale, ascoltabile in ogni tempo e in ogni luogo come precisa il cartello
che introduce la storia anche se, restando in ambito musicale, più che di una canzone potremmo parlare di
una sonata in tre movimenti data la
struttura tripartita del film, che comincia come un dramma (la relazione
extraconiugale, il progetto dell’omicidio, il tentativo incompiuto), muta
inaspettatamente in commedia (la riappacificazione in città e gli svaghi da
coppietta in gita domenicale) e ritorna precipitosamente drammatico con la
tragedia sfiorata nel finale (la tempesta, il naufragio ed il presunto
annegamento della moglie). La storia funziona bene in ciascuna delle sue vesti
ed i cambi di registro, per quanto repentini, sono fluidi ed organici, tanto
che non sarebbe esagerato definire Aurora
come un film totale, completo, capace cioè di coinvolgere sia quando “fa sul
serio” che quando “scherza”; la cupezza quasi gotica della prima parte e la
piccola apocalisse della terza sono mitigate dall’intermezzo leggero e
rigenerante della visita al luna park,
che lo sguardo ingenuo e semplice dei due sposini di campagna identifica forse
con la città tout court, un luogo
felice perennemente animato da feste e musica e pieno di persone gentili e
servizievoli (basta pagare…), dove ci si può persino divertire ad inseguire un
maialino nero stufatosi di fare il saltimbanco per gli uomini… Invece, nella
lucida visione di Murnau, la città appare già come un caotico dedalo soffocato
da un traffico infernale –e siamo solo nel 1927!- e popolato da curiosi esseri
che vanno sempre di fretta, in chissà quali faccende affaccendati, e da
individui che si mostrano disponibili solo per interesse: una rappresentazione
negativa che per precisione e verosimiglianza è degna del miglior futurologo e
che risulta molto diversa rispetto a quella, decisamente fantascientifica e
ancor più pessimistica, operata da Fritz Lang nel coevo Metropolis. Leggendo tra le righe del film, sembra proprio che in Aurora il confronto campagna/città
risulti nettamente sfavorevole alla seconda, tanto è polarizzato il dualismo
tra due realtà radicalmente opposte: l’una -la campagna- caratterizzata
dall’ordine e dalla benevolenza (…almeno fino alla tempesta!) della Natura,
come vediamo nell’emblematica scena in cui il cane, forse avvertendo le
intenzioni dell’uomo, dopo aver “protestato” a gran voce si libera dalla catena
per lanciarsi all’inseguimento a nuoto della barca appena partita per la “gita”
sul lago, forse nel tentativo di impedire l’imminente delitto; l’altra –una
città che già presenta i “sintomi” della metropoli- dominata dal caos e dai
rumori; anche il giudizio “sociologico” rispecchia questa contrapposizione
totale, con il relativo giudizio in odore di manicheismo, dei due ambienti: da
una parte, la campagna e i suoi abitanti semplici e generosi, che dimostrano la
loro forte solidarietà verso un compaesano in difficoltà impegnandosi, tutti,
nelle ricerche della moglie dispersa, una donna pia e irreprensibile, intrisa
di cristiana sopportazione; dall’altra, la città con le sue insidie e
tentazioni (luci, divertimenti…), un luogo popolato da figure ambigue ed
inquietanti come la Donna
della Città, l’elemento perturbante della storia, una figura il cui fascino
misterioso e luciferino ne fa la personificazione del Male, una Luna Nera le
cui tinte fosche si scontrano con la luminosità del volto e dei capelli biondi
della candida moglie dell’agricoltore. Ovviamente, sappiamo tutti che nella
realtà le cose non sono così semplici e che bene e male si mescolano un po’
dappertutto senza una regola precisa, ma la visione manichea e un po’ riduttiva
del mondo è tipica -ed essenziale- delle favole al cui mondo appartiene anche Aurora, che altro non è che questo: una
meravigliosa favola raccontata, anziché oralmente o per iscritto, attraverso
una modalità d’espressione alternativa come quella garantita dal cinema, mezzo
all’epoca ancora relativamente nuovo ed inesplorato ma dalle indubbie
potenzialità affabulatrici, come dimostra la riuscita di storie come la qui
presente, il cui obiettivo non è certo, come volevano i fratelli Lumiere, la
rappresentazione nuda e cruda della realtà, bensì il piacere del “racconto di
una volta” affidato alle immagini anziché alle parole. A livello tecnico, oltre
che per la suggestiva rappresentazione del fascino delle City Lights, il regista stupisce per l’inusitata (per l’epoca)
profondità di campo di certe inquadrature, ottenuta attraverso geniali astuzie
–svelate brevemente nei contenuti speciali del DVD- che dimostrano tutta la
grandezza e la genialità di un artista uscito di scena troppo presto.
Aurora ha conquistato ben
tre Oscar: uno per l’interpretazione di Janet Gaynor, uno per la fotografia più
un Oscar speciale al film per i suoi meriti artistici.
Gli extra del disco propongono alcune scene
inedite eliminate in fase di montaggio ed un interessante documentario su 4Devils, il film perduto di Murnau.
Francesco Vignaroli
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