Anfiteatro
Festival di Albano Laziale. Giovedì 14 agosto 2014
Foto Elena Lanfaloni |
Gli adattamenti, le
riletture, i tentativi di novità in un grande testo classico del teatro si sa,
sono pericolosi. Può uscirne un nuovo capolavoro, un’interpretazione modernista,
un ibrido o, nella peggiore delle ipotesi, si può rovinarne del tutto la
bellezza originaria. Un Mercante di Venezia con qualche novità interessante,
quello visto all’Anfiteatro Festival di Albano Laziale, nell’adattamento di un
gigante del teatro quale è Giorgio Albertazzi, per la regia di Giancarlo
Marinelli, ma con più di una perplessità nel complesso. Diciamolo subito:
Shylock è la figura più coerente e onesta della ricca brigata, aldilà della
umanissima interpretazione del Maestro Albertazzi, che conferisce calore a
colui che dovrebbe rappresentare l’esatto contrario. Forse il senso più
profondo e, se vogliamo, più interessante dell’opera, è la “lettura” della
contesa tra Shylock e Antonio (Albertazzi – Castellano).
Quella libbra di carne pretesa come giusta penale, giusta perché pattuita ufficialmente tra i due, cosa altro è se non un monito? Quando tutto viene valutato in denaro, anche la giustizia, si fa presto a metter da parte il valore dell’uomo. Si scherza con la sua vita. E allora l’ostinazione di Shylock l’ebreo è il tentativo di ribaltare la logica mercantile dei suoi antagonisti cristiani, che è quella di tramutare il valore del corpo umano in vile denaro. Lui rifiuta somme molto più alte pur di veder ripagati gli affronti che ha sempre dovuto subire e tener fede al patto. Lui, mercante in una Repubblica di mercanti, sembra il più onesto. Non è diverso dagli altri. Il suo grido accorato (nell’emozionante monologo), durante la resa a cui è costretto dai cavilli della legge declamati dalla furba Porzia travestita da giudice, quell’ “io sono veneziano!”, lancia un lampo illuminante sul pubblico infreddolito da una insolita notte di mezza estate e prepara la fine della commedia che non a caso, crediamo, lascia incompiute le conclusioni di entrambe le parti. Le luci si spengono senza il consueto lieto fine tra Bassanio e Porzia, Antonio si defila dopo aver visto la morte in faccia e accoglie la notizia del ritorno in salvo delle sue navi e il povero Shylock resta solo, senza soldi e figlia, consolato dal suo ex servitore Job, l’unico a mostrare compassione tra tutti i personaggi. L’incertezza incombe sulle vite di tutti.
Quella libbra di carne pretesa come giusta penale, giusta perché pattuita ufficialmente tra i due, cosa altro è se non un monito? Quando tutto viene valutato in denaro, anche la giustizia, si fa presto a metter da parte il valore dell’uomo. Si scherza con la sua vita. E allora l’ostinazione di Shylock l’ebreo è il tentativo di ribaltare la logica mercantile dei suoi antagonisti cristiani, che è quella di tramutare il valore del corpo umano in vile denaro. Lui rifiuta somme molto più alte pur di veder ripagati gli affronti che ha sempre dovuto subire e tener fede al patto. Lui, mercante in una Repubblica di mercanti, sembra il più onesto. Non è diverso dagli altri. Il suo grido accorato (nell’emozionante monologo), durante la resa a cui è costretto dai cavilli della legge declamati dalla furba Porzia travestita da giudice, quell’ “io sono veneziano!”, lancia un lampo illuminante sul pubblico infreddolito da una insolita notte di mezza estate e prepara la fine della commedia che non a caso, crediamo, lascia incompiute le conclusioni di entrambe le parti. Le luci si spengono senza il consueto lieto fine tra Bassanio e Porzia, Antonio si defila dopo aver visto la morte in faccia e accoglie la notizia del ritorno in salvo delle sue navi e il povero Shylock resta solo, senza soldi e figlia, consolato dal suo ex servitore Job, l’unico a mostrare compassione tra tutti i personaggi. L’incertezza incombe sulle vite di tutti.
Foto Elena Lanfaloni |
Il “Mercante” resta l’opera che celebra
l’epopea dell’ambivalenza, delle dicotomie. Considerato che la pièce è un
classico della storia mondiale del teatro, forse i riadattamenti non sono poi
inconsistenti. In una rilettura come questa (con un prologo che allude
velatamente a un rapporto tra Antonio e Bassanio che va oltre l’amicizia), ci
saremmo però aspettati qualcosa di più coraggioso nella recitazione,
francamente “antica”, da parte dei giovani interpreti, che non riesce a
catturare la passione degli spettatori. Le perplessità, poi, cui si accennava,
riguardano soprattutto alcune scelte registiche, come l’uso delle luci, che
troppo spesso diventano didascaliche, così sparate inopportunamente. Anche
l’uso delle musiche non convince, se non a tratti. Due novità hanno colpito
favorevolmente il sottoscritto ed il pubblico presente (tantissimo, 750
presenze!): la figura, inventata dalla penna di Albertazzi, del servo Job,
interpretata da Cristina Chinaglia, un talento puro che illumina la scena con
la naturalezza di un’attrice consumata, pur essendo molto giovane (classe 1982)
e il tratteggio, sempre voluto dal Maestro, di un Doge imbranato, sordo,
spassoso, interpretato ottimamente da un altrettanto giovane Gaspare Di
Stefano, che strappa risate ad ogni intervento. Il finale “sospeso” piace,
adattandosi molto bene a un’epoca moderna come la nostra, piena di incertezze. Attualissimo,
quindi.
Paolo
Leone
Il mercante di Venezia, di
William Shakespeare. Con Giorgio Albertazzi e Franco Castellano
Regia: Giancarlo Marinelli
Personaggi e interpreti:
Shylock: Giorgio Albertazzi;
Porzia: Stefania Masala; Antonio: Franco Castellano; Doge: Gaspare Di Stefano; Bassanio:
Francesco Maccarinelli; Jessica: Ivana Lotito; Job: Cristina Chinaglia; Lorenzo:
Mario Scerbo; Nerissa: Vanina Marini; Graziano: Diego Maiello; I ancella:
Alessandra Scirdi; II ancella; Erika Puddu
Scene: Paolo Dore; Costumi:
Daniele Gelsi; Consulenza storico letteraria: Sergio Perosa; Aiuto regia:
Federica Soranzio
Si ringrazia l’ufficio
stampa nella persona di Maria Letizia Maffei
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